mercoledì 1 dicembre 2010

venerdì 24 settembre 2010

piccole facce


ho assistito al concerto di cristina donà con gli occhi semi chiusi, con poca luce, insomma. tutto mi è sembrato più piccolo, il numero di persone, le loro voci, la loro presenza quasi insignificante.

il meglio della musica l'ho sentito mentre passeggiavo tra le rovine di questo posto strano che conosco da quando è rinato, il sacramento.

non è che sia stato proprio loquace e di compagnia per tutta la serata. più o meno quando è cominciato il canto ho smesso di essere agganciato al mondo circostante. quasi avrebbe anche potuto capitarmi di volare via, come una specie di palloncino della festa, di quelli pieni d'elio, che quando te li legano al polso, da bambino, tu pensi che sarai felice per sempre, invece, tre minuti dopo, mentre lo vedi sparire in cielo, mamma non lo so come ha fatto a slegarsi, lo giuro, pensi che non ti riprenderai mai più dal trauma dell'abbandono.

io, mentre me ne salivo per aria, ogni tanto cercavo qualcuno, uno sguardo, un piccola faccia che mi facesse da ancora e quando l'ho trovata sono risceso un po', ma così, tanto per assicurarmi che lo spago non si stesse sciogliendo.


come quei due che ho incontrato fuori, prima di entrare. lui si chiama antonio e lei non me lo ricordo come si chiama. comunque è quasi sessant'anni che stanno insieme e litigano sulla ricetta del risotto alla milanese da almeno cinquanta. sarà perché sono pugliesi, che nessuno dei due è sicuro di cosa ci vada dentro, sarà perché entrambi dicono che a casa cucinano loro ma, quando uno dei due la spara grossa l'altro lo corregge, così, semplicemente, e a vederli non sembra tanto male.


guarda, anto', ho controllato, lo so che internet non è proprio tra le fonti che tu riterresti più attendibili ma da tutte le parti ho letto che il brodo per il riso lo devi fare con l'ossobuco, come diceva tua moglie. insomma, mi dispiace ma c'ha ragione lei, la pancia ce l'hai perché mangi, mica perché cucini.

domenica 19 settembre 2010

linea di galleggiamento


l'orizzonte, visto da una barca, sembra sempre più in discesa o in salita, a seconda di come uno lo guarda. ho provato a raddrizzarlo con un piccolo intervento di fotoritocco e mi sono accorto che, in questo modo, a diventare storto è proprio tutto il resto.


le barche e i marinai, i bagnanti con prole, i compagni di viaggio e quelli di tenda, che se sei fortunato sono anche la stessa persona, il vino, i cani e i gatti, le sirene e i loro scogli, quei piccoli pezzettini di vetro che il mare leviga sulle spiagge, gli ombrelloni, i salvagente, la passeggiate tra gli ulivi e i valloni dove nemmeno i muli  vanno, i corteggiamenti e i canti, all'ombra dei carrubi, uno maschio e uno femmina, rigorosamente insieme.


quando scendi dalla barca succede che lo storto è quello che fino a prima di partire era dritto. questo perché il mare è un'altra cosa, indipendentemente dal fatto che lo si guardi dal davanti o dal di dietro.

venerdì 20 agosto 2010

perpetua canonica


quando mia nonna, ormai messa male col cancro e non più in grado di muoversi da casa, ci sentiva parlare di viaggi da fare, impegni da sbrigare, tragitti da compiere, dal letto in cui stava, sempre senza preoccuparsi di essere invitata, se ne usciva con frasi del tipo, allora quann' emma parti'?, oppure, aspettate mo faccio due crocché e po' jamm'. il fatto che, viste le sue condizioni, anche volendo fosse impossibile per lei seguirci non sembrava minimamente interessarle.

medito sul fatto che l'apertura al viaggio dipenda essenzialmente dalla capacità che si ha di portarsi la colazione da casa.

lunedì 9 agosto 2010

il pieno e il vuoto


a tavola con la gelosia
a condividere il pasto.

forchette pungono disdette
autentica leccornia, cuore guasto,
rancido sapore, geometrie perfette.

assaggio mentale
stavolta la forma
del fianco
fatale, dolcissima bomba
gusto casto l'odore
e poi sbianco.

la golosa commensale
intanto
mi mangia dai piedi
non sazia, m’assale.

sabato 24 luglio 2010

la breve estate

contrariamente a quanto si crede, non è mica una questione di clima, almeno non quello meteorologico.

non si tratta nemmeno di una faccenda di tempo, perché con le dovute precauzioni si sa che uno il tempo lo può restringere o allargare a proprio piacimento.

c'è chi crede invece si tratti della distanza, manco fosse un luogo fisico. uno non lo raggiunge mai e lui diventa sempre più 'estivo' man mano che ci si allontana da casa.

insomma, la maggior parte delle persone ne fa una questione di quantità, qualcuno pensa anche alla qualità, e forse non sbaglia, ma nessuno riflette mai sul fatto che potrebbe trattarsi di una invenzione tutta emotiva, una sorta di pausa tra il freddo e le tempeste.

giovedì 15 luglio 2010

chi è di scena

attori, cantanti, musicatori, nani, giannizzeri, saltimbanchi, pagliacci, trampolieri, mimi, esperti di nulla, bravi in tutto, ballerine, maschere, fantocci e burattini, predicatori, simulatori, prefiche, nobili, cardinali, cantinieri, fanti, damerini, paesanotti, beoni, imbonitori, ciarlatani come me, pescatori, negri, fate, aedi e cantastorie, tutti si affannano alle quinte, pronti ad entrare sul palco, indifferenti a pause e rumori.
rimane in disparte al buio, in cerca di motivazioni, solo il protagonista, indeciso se fare un giro in giostra con tutti gli altri o scendere in platea ed assistere al siparietto in perfetta solitudine.

domenica 27 giugno 2010

i soldatini

è da quando sono piccolo che ho un problema con la disciplina.
cioè, io mi sforzo di fare quello che mi chiedono e devo dire che, grazie ad una certa frivolezza di pensiero, oltre che a ridotte capacità critiche, sarei anche portato ad eseguire gli ordini senza discutere. il vero problema, la questione che mi ha reso, nell'ordine, un pessimo scolaro, uno sportivo poco portato per il gioco di squadra, un obiettore senza coscienza, un uomo poco concreto (oh, tutti "complimenti" ricevuti nel corso degli anni... dopo una lunga ed imperseverante carriera di scombinato) è che mi distraggo. sì, mi stanco facilmente e allora cerco stimoli, cado in tentazioni, più per indolenza che per scelta, e mi ritrovo a fare quello che non andrebbe fatto.

la maestra alle elementari me lo diceva sempre, luigi, diceva, devi stare composto, ed io, sì signora maestra, e mi mettevo con la schiena dritta, le piante dei piedi ben posate a terra, i gomiti fuori dal banco, facevo tutto come si deve. sembravo uno di quei manichini a forma di bambino che si vedevano alla standa, quando mi ci portava mamma. ma durava poco. alla fine mi distraevo, sentivo una voce, mi venivano in mente cose da fare e alla schiena, i piedi, all'educazione, alla maestra e tutto il resto proprio non ci pensavo più.

allora la signora italia, la maestra appunto, mi chiamava alla cattedra, si faceva consegnare la mia riga da disegno, una di quelle belle da 60 cm in plastica trasparente, che io immaginavo sempre di avere una spada di cristallo e ci giocavo a decapitare i miei compagni di classe, mi faceva allungare le mani verso di lei con i palmi verso il basso e diceva, prima o poi imparerai la disciplina.

ancora adesso, quando vedo i soldatini, istintivamente mi viene una sorta di prurito alle nocche delle mani.

sabato 19 giugno 2010

una terra chiamata saramago

questa notte ho fatto un sogno. sì, proprio io che non sogno mai, stanotte l'ho fatto. non è successo mentre dormivo e nemmeno mentre ero sveglio, è capitato da un'altra parte, in un paese straniero. un posto dove le cose avvengono solo con una parvenza di realtà, come le ombre riflesse in una caverna, che uno le crede vere se non ha mai visto altro.

lì, nessuno mi conosceva, ovviamente, ed io non conoscevo nessuno. sono passato ovunque del tutto inosservato. è lì che ho capito di essere di un altro posto, io, perché alla fine avrei voluto ringraziare tutti. grazie a quello che mi ha tagliato la strada con la macchina, che neanche si è accorto di me sulle strisce, grazie alla cassiera del supermercato, dove ho comprato qualcosa, che non mi ha salutato con le solite frasi di circostanza, in effetti non mi ha salutato affatto, non ha neanche alzato gli occhi dal cassettino delle monete, grazie ai passanti che mi sono rimbalzati addosso lungo le strade affollate e persino ai poliziotti che mi hanno cercato i documenti, perquisito, arrestato e poi rilasciato per insufficienza di prove e però non mi hanno chiesto né dato spiegazioni. io me lo sarei domandato, senti ma come mai tu non sei tutto nero come noi, una cosa così io avrei voluto saperla. loro invece no.

mi viene di ringraziarvi tutti, grazie, perché non siete gli altri, quelli a cui tengo, quelli che tengono a me, quelli che mi incastrano con le responsabilità, le decisioni, l'amore, le mamme, i figli, le mogli, le amanti, i cani e i gatti, i colleghi, gli amici. niente di tutto questo. grazie, perché posso non ascoltare le vostre ragioni, perché non provo compassione per voi, perché non condivido le vostre sorti, perché non influenzate la mia, grazie perché non siete costruttori di legami, non per me.

certo, quando è arrivata la mattina e il bianco e nero si è sfumato nel solito mondo di colori, ho pensato che non fosse il caso di indugiare oltre su tali argomenti, perché di sicuro tengo famiglia, perché ultimamente forse pure il lavoro, perché non si sa mai l'amore, perché ho preso degli impegni, per fortuna non ho cani e gatti ma non si può mai dire. insomma a tutti questi pensieri qui io, dopotutto, gli voglio bene. è per questo che faccio l'ipocrita e mi sa che non glie lo dico che nel profondo li odio anche un po'.

lunedì 14 giugno 2010

witness journal

è possibile che non interessi particolarmente a nessuno. è probabile che le quattro persone che più o meno regolarmente frequentano questo blog lo abbiano già saputo (visto che per un buon 75% sono membri della mia famiglia o affini). ma sono dieci giorni che non scrivo qui, ho esaurito tutta la scorta di "foto da blog" che avevo messo da parte per i tempi di magra fotografica e poi mi pare anche un po' giusto che di questo evento rimanga traccia qui.

insomma, la rivista mensile di fotogiornalismo on-line, witness journal, questo mese ha pubblicato un po' di scatti dal reportage sul popolo curdo (sì, sempre quelli con cui vi ammorbo da ormai quasi 10 mesi!).

sono soddisfatto, però, se proprio devo dirla tutta, witness, io ti avevo mandato anche altre foto che secondo me erano più significative, un pochino più personali. per carità, grazie per la considerazione ma il fatto è che uno non si accontenta mai...

giovedì 3 giugno 2010

in-differenze

ho letto da qualche parte che i cosiddetti non-luoghi si definiscono come tali poiché al loro interno non avviene la vita, cioè si passa ma non si sta.

dunque, quando siamo in stazione, saliamo o scendiamo dalla metro, quando aspettiamo ai controlli di sicurezza di un aeroporto o, ancor meno catarticamente, spingiamo il carrello della spesa lungo i corridoi di un centro commerciale, in tutti questi momenti siamo delle non-persone.

mi domando allora perché ogni volta io mi incanti a guardare i passanti, perché mi sembrino così umani. comincio a sospettare si tratti del fatto che mi piace un sacco fare la spesa.


mercoledì 2 giugno 2010

berlin eingabe/ausgabe

alla fine, ripensandoci, ho visto una torre, un muro e quattro blocchi di pietra. e la città intorno è bella, placida, opulenta, confortevole, a modo suo romantica. eppure queste poche cose mi hanno fatto davvero impressione.



venerdì 21 maggio 2010

punti morti

morire (classica), decedere (ricercata), defungere (formale), cadere (eroica), trapassare (metafisica), spirare (spirituale), procombere (inconsueta), andare all'altro mondo (fedele), venire a mancare (delicata), passare a miglior vita (ottimista), venire meno (colpevolista), volare in cielo (epifanica), andare in paradiso (molto ottimista), crepare (prosaica), schiattare (cruda), schioppare (cacofonica), rimetterci la pelle (colorita), stirare le zampe (ironica), finire orizzontale (sostenibile), tirare le cuoia (sgarbata), farsi prendere dalla grande livellatrice (poetica), rimanerci secco (arida), rendere l'anima a dio (mistica), finire a piedi avanti (pratica), andare a far compagnia ai vermi (gastronomica), cadere a faccia avanti (progressista), chiuedere gli occhi per l'ultima volta (scontata), lasciarci le penne (angelica), essere pronto per il boia (esclusiva).

diceva mia nonna, a muri' e a pava' ce sta semp' tiempo, poi rimaneva un po' ferma, lo sguardo fisso a seguire un pensiero, ma soprattutto a muri', aggiungeva.
come darle torto.

martedì 11 maggio 2010

prurito


quando l'insonnia mi sbrana
in cuore mio compare
sempre la zanzara
che vive, buca e ama
in soli sette giorni
una settimana.

che brava.
quella vola, mi punge
e mai dorme.
e intanto io penso, puttana.

domenica 9 maggio 2010

la faccia della musica

musicanti e strumenti si somigliano sempre un po'. certe volte è difficile addirittura distinguere uno dall'altro. mi sono fatto capace che deve trattarsi di una questione di trasporto. il punto è che, nei casi più interessanti, non si capisce bene chi stia suonando chi.


mercoledì 28 aprile 2010

controsenso

si dice che fotografo sia chi, quando tutti guardano da una parte, invece di fare lo stesso, si mette a guardare tutti.

questa cosa qui mi piace molto.

domenica 25 aprile 2010

liberazione

'a uerra è 'na schifezza. lo diceva mio nonno.

io questo nonno qui non l'ho mai conosciuto, è morto un poco prima che nascessi ma conservo da qualche parte le sue medaglie e so che parlava con cognizione di causa. a giudicare dalle patacche che gli hanno dato, infatti, e facendo due rapidi calcoli, ho capito che è stato in libia nel 1911, per la conquista della quarta sponda, e poi in trincea per tutta la durata della grande guerra, dal 1915 fino al 1918. alla fine è tornato, con una serie di croci di metallo e pure tutto intero. mi hanno raccontato però che il nonno era un omino tranquillo e cordiale ma sempre un po' lontano con la testa, come se le faccende di tutti i giorni fossero distrazioni e quello che gli girava dentro, e che sapeva solo lui, invece fosse veramente importante. secondo me sto fatto, con gli anni di atrocità praticate e subite in guerra, doveva entrarci.

cosa pensasse mio nonno della guerra me l'hanno detto una volta che ero dal barbiere. avevo 11 o 12 anni e ogni mese mia madre, andando da maria, la parrucchiera che stava di bottega proprio affianco, mi lasciava da angelo, il barbiere appunto. quel posto mi metteva un po' in soggezione, era tutto moderno e pieno di spigoli pittati di nero e di bianco, anche dove non si capiva perché ce li avessero messi. tutte le volte che ci andavo, dentro trovavo il padre di angelo, un vecchiaccio vestito male e coi capelli e la barba trascurati che però mi sorrideva e mi salutava sempre, a dispetto del fatto che la differenza di età imponesse l'esatto contrario. era vedovo da un sacco di anni e non è che avesse tutti questi soldi, per cui certe cose se le doveva fare da solo. è per questo che era sempre un po' trasandato. però il fatto della barba e dei capelli, considerato che passava le giornate nella bottega del figlio barbiere, veramente non me la sono mai riuscita a spiegare.

fu proprio questo signore qui, una volta, a dirmi che lui sapeva chi ero, che ero figlio di antonio il dottore, buonanima, che a sua volta era figlio di luigi, dio lo abbia in gloria, ed io portavo quel nome proprio perché lo avevo preso dal nonno. lo guardai senza dire niente ma si doveva capire che stavo pensando che era rincoglionito. avevo 12 anni, mica 2, lo sapevo benissimo che portavo il nome di mio nonno. lo so che lo sai perché ti chiami così, aggiunse lui a quel punto, quello che non puoi sapere però è che per me tuo nonno era una persona veramente importante, pace all'anima sua, perché una volta mi ha salvato la vita. doveva essere uno molto religioso il padre di angelo il barbiere.

e se ne venne con questa storia incredibile di lui ed altri tre o quattro ragazzotti del paese che, nell'ottobre del '43, erano stati beccati dai tedeschi. a fare cosa? niente, naturalmente. i crucchi si erano messi di base poco più giù, verso contrada iannassi, e siccome erano giorni che giravano a vuoto per tutte le masserie e non trovavano da mangiare, avevano deciso che era arrivato il momento di far capire a questi zotici, piccoli e neri, di italiani chi comandava. di conseguenza, rastrellamento e fucilazione, addò coglio coglio. sti poveri sciagurati erano stati portati sull'aia dei genito, a meno di cinquecento metri da casa mia, e lì era cominciata una macabra trattativa tra tedeschi e cafoni. dateci le cose da mangiare che tenete nascoste chissà dove, dicevano i primi, ma noi ci puzziamo di fame e non abbiamo niente di niente, rispondevano disperati gli altri, nein, siete belli paffuti, non sembrate morti di fame, cacciate la roba se no per questi poveri sciagurati, kaputt, ma quale roba, quale paffuti, che c'abbiamo le costole che ci escono da fuori. insomma, le cose si stavano mettendo davvero male.

capita allora che, al sicuro nella loro masseria, i fonzo che sono abbastanza vicini da seguire tutto, compresa la mala parata, decidono di correre a cercare aiuto. e sulla nazionale, proprio davanti casa loro, sta passando in quel momento mio padre, il quale se ne usciva a fare un giro con la giumenta. il giovane antonio, imboscato di guerra, a sentire quello che sta accadendo, pensa proprio che non è cosa di andarsi ad affacciare e se ne torna a casa a briglia sciolta. è così che mio nonno viene a conto della faccenda e, vai a sapere perché, decide di andarci lui dai genito, a vedere se si poteva trovare una soluzione.

quello che succede nell'incontro tra il nonno e il caporale del drappello nazista, il padre del barbiere non me lo sa spiegare con precisione, lui era troppo impegnato a piangere come un vitello, mi dice, si ricorda solo il nonno che gridava e che non si metteva paura, neanche dell'arma che, a intervalli regolari, il crucco gli puntava in faccia. il vecchio proprio non lo sa come fu ma alla fine i tedeschi se ne andarono e li lasciarono lì e il caporale, a lui almeno parse così, mentre partivano con la camionetta, fece pure una sorta di cenno di saluto.

il padre di angelo non se lo ricorda meglio di così cosa successe ma una cosa gli è rimasta impressa. quando mio nonno giunse sul posto, coi tedeschi che, a vederselo arrivare tutto trafelato, che gridava e faceva segni con le mani, per attirare l'attenzione, tirarono tutti su i mitra e si misero a gridare pure loro e forse stavano pure per sparargli, insomma, quando nonno luigi gli fu a pochi passi, si guardò intorno, allargò le braccia platealmente, le lasciò cadere di nuovo lungo i fianchi e poi, con una faccia sinceramente dispiaciuta, disse, 'a uerra è 'na schifezza.

domenica 18 aprile 2010

thòlos

precettato in pieno inverno per uno scavo archeologico d'emergenza. io me lo ricordo bene di aver detto di no, ricordo proprio le parole, non se ne parla, ho detto così, quindi non mi spiego come cazzo è che adesso sono sul pavimento di una tomba a camera, calato con una scala a corda da una voragine nel soffitto, tre metri più su. per vederci qualcosa, a circa metà scala, è stata attaccata una lampadina, dentro è tutto umido ma ci saranno almeno tre gradi in più rispetto all'esterno. i vantaggi delle pietre tufacee, fresche d'estate e calde d'inverno. quante volte l'avrete sentita sta cazzata? invece non è vero niente, qui la temperatura è costante tutto l'anno, è fuori che cambia.

intanto che scavo, mi infradicio il pantalone sulle ginocchia e comincio a non sentire più le dita delle mani per il freddo. farei volentieri due chiacchiere con qualcuno ma qui sotto non c'è nessuno e fuori c'è solo vincent.

vincent è un tipo roscio e grosso, che secondo me quando era piccolo gli facevano fare obelix alla recita della scuola. insomma non è che abbia proprio lo sguardo intelligente, vincent, poi è uno poco loquace e se ci mettete anche che è francese... non so se vi ho detto del mio problema con il francese. in pratica, il mio problema con il francese, come idioma intendo, è che non lo so.

nemmeno vincent sa l'italiano ma in fondo a lui che glie ne frega, lui sta in piedi nel caldo del suo piumino a fumare sigarette e quando io lo chiamo, vincent, dico, lui deve solo prendere la corda della carrucola e tirare su il secchio. che poi proprio un secchio non è. è una sorta di mezzo bidone metallico con un manico a cui è attaccata la fune. da pieno peserà una quarantina di chili, roba che solo uno ben piazzato come il francese può tirarlo su. e ci si deve pure mettere d'impegno.

infatti, un paio di volte è capitato che io lo abbia chiamato un po' troppo in fretta, vincent, ho detto, e poi non ho fatto in tempo ad agganciare il bidone che lui già era partito con il primo strattone, volando letteralmente a zampe all'aria. o almeno io lo immagino così, che da qui giù si è sentito solo una sorta di grido strozzato, un gran tonfo e poi vincent che parlava di mare. deve venire da una famiglia di pescatori o qualcosa così, vincent, perché ogni tanto se ne esce con sto mare di qua, mare di la o qualcosa così, sta tutto il tempo a dirlo.

secondo me si è convinto che io lo faccia apposta, tanto per ridere alle sue spalle, ma io non mi permetterei mai, cioè, a ridere rido ma mica sarei così meschino da farlo volare a terra ogni due per tre soltanto per passare il tempo. vabbe' forse lo farei ma a lui è meglio che non glie lo dico.

mentre faccio per raschiare via un'altra zolla di terra dalla parete, con la trowel, che poi sarebbe semplicemente una cazzuola piccolissima ma, se la chiami trowel, fa più indiana jones, insomma si comincia a vedere una sorta di incisione nel tufo. ci lavoro un po' vicino e capisco che si tratta di una scritta. quando, pochi minuti dopo, è tutta pulita, sono lì col cuore in gola, ansioso di decifrarla e già mi sento un novello champollion, quello che capì cosa cavolo volessero dire quei mammozietti nei geroglifici. in effetti pure lui era francese e sicuramente manco lui parlava l'italiano, vabbe' ma erano altri tempi.

a vederlo da vicino questo graffito non è che sia fatto proprio bene, si legge lo stesso ma sopra c'è scritta una cosa che non so come interpretare. c'è scritto, napoleone 1809. e che c'azzecca mo napoleone in una tomba etrusca? sembra come quando uno passa da qualche parte e, per ricordo, ci lascia la firma. come se io adesso mi mettessi a scriverci, luigi 1997, e chi cazzo se ne frega che io sono stato qui, certo magari di napoleone però qualcuno se ne frega. magari il mio amico in superficie sarebbe contento di vederla questa cosa qui. vincent, faccio, e poi mi ricordo con un istante di ritardo della faccenda della carrucola.

troppo tardi, quando riesco a dire qualcosa, che poi lui non capirebbe perché tanto è in italiano, sta già parlando di mare un'altra volta. quando si affaccia minaccioso dall'apertura, io gli faccio cenno di venire giù e vorrei spiegargli perché, ma mi viene in mente solo di dirgli, champollion, champollion, che a giudicare da come l'obeso salta sulla scaletta di corda, deve aver pensato che gli sto insultando la mamma. il fatto è che lui è talmente pesante e su quella scaletta ci si è gettato così tanto a peso morto che l'appiglio a cui l'avevamo fissata in superficie cede immediatamente e vincent viene giù come una montagna in frana, toccando terra a pochi centimetri da me.

sinceramente la cosa, a ripensarci, è anche ridicola ma lui, se non è morto nella caduta, di sicuro appena si riprende ammazza me e questa cosa qui mi fa passare la voglia di ridere. quando una decina di secondi dopo ricomincia a muoversi, sempre parlando di mare, io già sono in ginocchio, ad occhi chiusi, che gli indico il graffito, riponendo in questa cosa tutte le mie speranze di salvezza. il gigante si mette seduto ma non sembra imbestialito come sarei io al posto suo, no. anzi si ferma a guardare e questo mi conforta un po'. fa la faccia a punto interrogativo, si vede che nemmeno lui se la sa spiegare questa cosa qui che napoleone è venuto a mettere un autografo nella tomba etrusca. poi si avvicina, prende la cazzuola, lui è francese e quindi cazzuola gli suona più esotico, e si mette a pulire meglio intorno. salta fuori che davanti alla parola napoleone ci sta scritta un'altra cosa. la frase completa è, viva napoleone, 1809. vincent ridacchia un po' e, per la prima volta da quando ci conosciamo, si rivolge a me con frasi di senso compiuto, almeno credo, visto che lo ha fatto in francese e quindi chi lo sa.

si guarda intorno e vede la scala accartocciata accanto a lui. siamo bloccati qui dentro, almeno fino a quando tra un'oretta, a fine turno, ci verranno a prendere e ci aiuteranno ad uscire. a un certo punto vincent infila una mano dentro la giacca e ne esce fuori una di quelle fiaschette metalliche da alcolizzato, come si vedono nei vecchi western, la apre e me ne offre, cognac, mi fa. ora a me il cognac piace e in quella situazione, non sapete quanto ci stava bene un po' di alcool in corpo, ma, con tutto quello che gli ho combinato a questo qui, se prima non lo assaggia lui , col cavolo che mi ci vede bere. ma vincet in fondo è un buono, capisce le mie perplessità e ridendo si tracanna un lungo sorso in solitudine, vacci piano vincent, gli dico, che tu ci sarai sicuramente caduto dentro da piccolo, non hai capito, eh, vincent? poco male, anzi sta cosa che non parli e non capisci nemmeno è proprio rilassante. mi sa che la pensi pure tu così.

memorabile quella volta in cui rimasi prigioniero in una tomba etrusca a bagnarmi il culo sulla terra umida, sorseggiando ottimo cognac in compagnia di una colosso francese, con davanti agli occhi un muro crepato con su inciso, viva napoleone 1809.

e se qualcuno si sta domandando quale sia la morale, beh, è semplice, non andare mai in un posto dove non puoi procurarti da bere. non si sa mai quanto possa rendersi necessario un buon cicchetto.

sabato 17 aprile 2010

martedì 13 aprile 2010

visione privata

tornare a viterbo. è stato come quando cambi casa e poi vai a trovare i nuovi inquilini di quella vecchia. il posto è sempre il solito e uno ne conosce ogni segreto ma, per quanto tutti possano essere gentili ed ospitali, non è che ci si senta meno estranei.

domenica 4 aprile 2010

il contrario di un simbolo

ma c'è chi muore nel dirti addio".


"dimaco, ignori chi fu tuo padre,
ma più di te muore tua madre".


"con troppe lacrime piangi, maria,
solo l'immagine d'un'agonia:
sai che alla vita, nel terzo giorno,
il figlio tuo farà ritorno:
lascia noi piangere, un po' più forte,
chi non risorgerà più dalla morte".


"piango di lui ciò che mi è tolto,
le braccia magre, la fronte, il volto,
ogni sua vita che vive ancora,
che vedo spegnersi ora per ora.

figlio nel sangue, figlio nel cuore,
e chi ti chiama - nostro signore -,
nella fatica del tuo sorriso
cerca un ritaglio di paradiso.

per me sei figlio, vita morente,
ti portò cieco questo mio ventre,
come nel grembo, e adesso in croce,
ti chiama amore questa mia voce.

non fossi stato figlio di dio
t'avrei ancora per figlio mio".


i simboli, per loro natura, sono tutti intrinsecamente spersonalizzanti. prima ancora di credere o meno, mi fa impressione che gli uomini possano essere in tal modo semplificati, fino a diventare il contrario di se stessi. meno male che ci sono quelli come de andré.

martedì 30 marzo 2010

eros e thanatos

fa caldo, fa un caldo da matti, con i vestiti che ti si appiccicano addosso, manco fosse agosto. e invece è metà maggio, neanche. fino a meno di un mese fa era ancora inverno e adesso non si può stare più.
pasquale malavia non troppo se ne importa, che tanto questo è più un problema dei cittadini, che vivono giù, vicino ai fiumi. casa sua sta più in alto, sul piano, dove l'afa non c'arriva. e poi questo fatto del caldo improvviso gli sta facendo fare pure begli affari. pasquale fa il finanziere ma sottobanco, insieme alla mogliera, si fa pure un poco di contrabbando, carne, olio, un poco di sigarette, medicine quando serve, insomma, quello che si trova.

quel giorno sullo spiazzo davanti a casa sua si affaccia un calesse e da sopra scende niente meno che don salvatore viceré in persona. e questa è una cosa strana, pensa subito pasquale. di questi giorni qui vedere salvatore viceré che se ne va in giro, invece di stare a casa, è talmente insolito, che lui e quei quattro amici e clienti, diciamo così, che stanno giocando a bocce sotto al pergolato, si fermano tutti, zitti zitti, immobili come statue.

salvatore viceré è uno all'antica che ancora porta l'oro all'orecchio, come i fattori dell'ottocento, e preferisce girare con la giumenta piuttosto che salire su quegli scopparielli moderni. è zoppo al piede destro per via del pizzico di un gallo andato in cancrena. l'alluce alla fine se n'è caduto quasi da solo. ringrazia dio che non ti è marcita tutta la gamba, gli disse allora il dottore, bravo quel dottore, ad avercene così, si chiamava don giuseppe, quello che poi diventò un signor scienziato, apparteneva ai moscati. e comunque salvatore ringraziò davvero, e di cuore, perché per via di questa piccola menomazione si sparagnò la chiamata alle armi per la grande guerra.
salvatore e la moglie, angiolella, sono tutti e due molto religiosi, quasi dei bizzochi, e sono molto ben considerati da tutta la loro contrada e pure da quelle vicino. capita che, se si deve risolvere una questione delicata, allora chiedono a salvatore di fare da arbitro, perché lui è uomo di conseguenza, che sa tenere calme le cose e non se la piglia se qualcuno gli risponde male nella concitazione del momento.

tutti i cafoni dal campo di bocce fanno un cenno di riverenza con le coppole e le pagliette e pure i cittadini, che per la maggior parte non sanno chi sia questo ospite di riguardo, calano un pizzico la fronte, senza sapere neanche loro perché.
pasquale malavia, la faccia impenetrabile come sempre, si rende conto quasi subito che il nuovo arrivato non è sicuramente venuto per farsi un bicchiere di vino e una chiacchiera a bocce. salvatore viceré non è il tipo. è rimasto vicino al calesse e si accarezza la bella cavalla che lo traina, controlla che briglie e morso siano in ordine, insomma fa di tutto per rimanere in disparte. così, come gli altri compari tornano a giocare, pasquale, con mosse stanche e lente, si tira su dalla sedia e lo raggiunge.

pasquale malavia è uno sempre allegro, piccolo di statura, smilzo e dai capelli portati corti corti. per i pidocchi, dice lui, hai voglia a spiegargli che tanto con tutto il DDT che si butta addosso, ma di quello buono, americano, comprato sul mercato nero pure quello, non c'è pericolo di pidocchi e nemmeno di piattole. lui si trova meglio così e quindi così continua a fare. durante gli anni bui, lui che ha 8 figli sulle spalle, si è dovuto ingegnare parecchio per non fargli mancare il necessario. è stato allora che si è comprato la raccomandazione dal prefetto, per avere quel posto di finanziere. per tutta la guerra, questa volta la seconda, e anche un po' oltre, è andato a napoli ogni mattina per servizio. e questa cosa gli è andata giusta giusta, così ha potuto fare il contrabbando senza che nessuno sospettasse niente. d'altra parte, chi se ne sarebbe dovuto accorgere, visto che i controlli li faceva lui? pure pasquale malavia è uomo di conseguenza, però di tutt'altra pasta rispetto a salvatore viceré. lui le cose che si dicono sul suo conto se le ricorda sempre e qualche volte se le segna pure.

salvato’, buongiorno., buongiorno a voi, pasqua’., in famiglia tutto bene?, 'ngraziando a dio. e a voi?, uuuuuuh e questo la vuole pigliare proprio votando, pensa pasquale, di chiedere quello che gli serve, niente. pasquale non è fesso, se salvatore viceré viene da lui è probabile che gli serve qualche cosa che solo qui si può procurare. salvatore di solito non è uomo che si abbassa a questo genere di scambi, preferisce che a casa tirano un po' la cinghia, piuttosto che comprare di contrabbando. pasquale non troppo la capisce sta cosa, anche perché, se tutti la pensassero così, statti buono agli affari ma in fondo a uno come salvatore il rispetto è dovuto. resta il fatto che se sta lì, deve essere cosa seria.

e infatti salvatore è lì per avere un pezzo di ghiaccio, che pure se ancora non è arrivata la stagione, già fa così caldo che non se ne trova più in giro. il fatto è che a sua moglie angiolella, in questi giorni l’ha pigliata di nuovo il panteco. povera femmina, da quando ha dodici anni che tutti gli anni, almeno una volta, le vengono le mosse pilettiche e si comincia a sbattere e dimenare dove sta sta. le dura per una settimana precisa, in cui nessuno le può andare vicino, se no è capace che ti mozzica e ti stacca un dito o un orecchio, senza neanche accorgersene. dopo trenta anni di matrimonio, salvatore è riuscito ad ammansirla e sarà una decina d’anni che quando alla moglie gli piglia così, lui è l’unico che le può dare assistenza. è così che si è accorto delle parole.
angiolella c’ha il dono e, fino a che salvatore non era potuto stare vicino a lei, nessuno se ne era mai addonato. quando le pigliano le crisi, mentre si dimena come se c’avesse un serpente che la abballa in pancia, il suo corpo le fa fare le cose più sconce che salvatore abbia mai visto ma, nel frattempo, angela parla e dice cose sante, racconta dei morti, o meglio, i morti raccontano le loro cose tramite lei. è come se, quando le piglia, angela diventasse una sorta di finestra tra il mondo dei vivi e quello dei morti e allora per una settimana all’anno, fino a che la finestra sta aperta, da quell’altra parte, tutti i morti si accalcano a parlare, tutti insieme, per far arrivare i propri messaggi ai parenti. salvatore, che è sempre stato uomo faticatore, timorato del signore e coi piedi ben piantati per terra, non si è riuscito a fare capace di questa cosa fino a quando, tra le varie farneticazioni che la moglie cacciava, una volta si è trovato a sentire un messaggio del padre, don antonio, buonanima, che gli diceva sotto a quale cerza aveva atterrato la pignata coi piccioli, prima di morire, quando lui era ancora criaturo. salvatore, per scrupolo, ci è andato veramente a scavare sotto a quella cerza e i soldi del padre li ha trovati proprio dove gli aveva detto la mogliera. signore iddio un tesoretto, veramente, con cui poi aveva costruito buona parte delle sue fortune!
e da allora, cioè da quando si è convinto della cosa, salvatore ha cominciato a segnarsi le parole che i morti vogliono lasciare e poi, a settimana finita, se ne va casa casa per consegnare i messaggi. è anche per questo che salvatore e angiolella sono portati in palmo di mano da tutti.
la settimana del panteco, dello spavento, così la chiamano in famiglia, di solito capita sempre a mezza primavera. può sgarrare massimo di un paio di settimane prima o dopo ma, immancabilmente, tra aprile e maggio deve succedere. allora angiolella si dimena ininterrottamente giorno e notte e ininterrottamente parla. è praticamente impossibile per salvatore starle dietro tutto il tempo e la maggior parte dei messaggi infatti va perduta, perché lui o non fa in tempo a scrivere, visto che deve pure occuparsi della moglie nel frattempo, oppure va a fare i propri bisogni oppure, ogni tanto, un’oretta di sonno pure lui se la deve fare.
questa primavera la crisi è arrivata puntuale, è il caldo ad aver fatto prima del dovuto e angela, con tutto quel muoversi e col fatto che per una settimana intera non beve, non mangia e non dorme, sta molto più affaticata del solito. la povera donna comincia pure ad averci un'età, ormai sono quasi cinquanta. insomma salvatore a sto giro sta preoccupato assai e allora ha pensato fosse meglio trovare del ghiaccio per aiutare angela, per rinfrescarla un poco.

quando alla fine salvatore viceré si decide a chiedere quello per cui è venuto, pasquale, senza aggiungere altro, corre a prendere un bel pezzo nella ghiacciaia, cioè in quel fosso dietro al capannone del tabacco, dove tiene ficcato il sacco di iuta pieno di paglia col ghiaccio dentro, così rimane bello isolato e non si squaglia.
pasqua’, grazie tante. quanto vi devo per... il disturbo?, salvato’, niente, a buon rendere. e se per caso vi capita che angiola vostra vi dice qualche cosa da parte di mio padre, buonanima, fatemi il piacere, non ve la segnate e non me la venite a dire. così stiamo pari. tanto sarebbero tutte iastemme contro a me.
i due si guardano per poco più di un attimo e poi sulla faccia di entrambi si taglia un sorriso.
pasqua', che vi posso dire? siete un brav’uomo., non ci pensate, salvato’. e la settimana prossima, di sabato a sera, quando la vostra signora si sarà rimessa, mi farete cosa gradita se vorrete venire qui da me, che facciamo una serata danzante. e portate pure i vostri figli., non mancherò. salutammo., salutammo.

e a quella festa si innamorarono i miei nonni.

martedì 16 marzo 2010

lucidità

nei momenti complicati o intensi, in quelli dove si vive un po' più del solito, dicono sia un vantaggio per me il fatto di possedere lucidità.

i medici che operano, i soldati che sparano, i tribunali che giudicano, chissà per quante altre categorie umane valga questo assunto. il punto è che esistono persone per le quali è possibile sempre capire quale sia la cosa giusta o la più conveniente.

lucido però è quell'oggetto o superficie che riflette la luce, cioè che non si fa attraversare da essa. dunque, se le parole hanno un senso, sarebbe come dire che questa capacità di governare la realtà porti con sé, come controindicazione, una certa dose di distacco.

a questo punto, magari non sempre ma quando ne vale la pena, preferirei non essere lucido, andare un po' a cazzo e sperare che venga bene.

certo, dall'alto di una torre le foto vengono sicuramente più nitide ma non è detto che la cosa interessi poi tanto.

domenica 14 marzo 2010

giochi di società

quando vado ad un convegno, una presentazione o un vernissage, quando assisto ad una performance, un seminario o una lettura, subito mi sento come uno che fa finta di essere grande ma che invece grande non è. che l'argomento sia politico o culturale, che il libro o il quadro di turno siano ben fatti oppure del tutto velleitari, che i fiori sul tavolo dei relatori e gli stuzzichini al banco aperitivi siano freschi oppure di plastica, tutto ciò non influisce granché sullo straniamento che mi prende.


a dirla tutta, questa cosa qui mi fa un po' ridere.
non so se tale circostanza sia colpa della società, questa cattivona che pare ce l'abbia sempre con me e tutti i miei simili, oppure sia da imputarsi ai politici, noti cleptomani metereologici, capri buoni per tutte le stagioni, o magari dipenda dal passaggio del sole in saturno, ammesso che questo voglia dire qualcosa, fatto sta che, pur frequentando certi spazi e reputandoli utili a loro modo, per lo meno nel differenziare cosa sia ufficiale da cosa no, non mi riesce proprio di sentirmi coinvolto.


ho pensato per un pezzo di essere ancora troppo piccolo per certe cose, diciamo troppo fuori quota, illegittimo, disadattato al punto di non capirne la vitale necessità.
ora che il più delle volte a questi rituali mi sottopongo spontaneamente, che la maggioranza dei partecipanti è più o meno mia coetanea, e si vedono anche un discreto numero di più giovani, mi domando come mai continui a trovare così poco interessanti i giochi da grandi.

l'unica spiegazione plausibile è che, indipendentemente dall'età anagrafica, si possa trattare di una qualche particolare conformazione del cervello, di cui con tutta evidenza devo essere privo.

chissà che non la si possa documentare fotograficamente.

martedì 9 marzo 2010

sans débit


ai tempi del rullino, quando portavo questo piccolo cilindro magico a stampare, il più delle volte non è che avessi l'esatta cognizione di quanto fatto e poteva capitare che le cose non fossero andate proprio come volevo.

ecco, ho scoperto che in francia, invece, dopo averti stampato più o meno tutte le foto, facevano una selezione, dove quelle mosse, sfocate, con inquadrature tagliate, insomma tutte quelle che, ad insindacabile giudizio dello studio che le stampava, non erano come avrebbero dovuto, non te le facevano pagare. sì, ci attaccavano sopra un piccolo adesivo, come quello nella foto, e te le scalavano dal prezzo.
praticamente l'errore era gratis e, a pensarci bene, in questo modo anche la sperimentazione.

questa cosa mi piace così tanto che ho deciso di usarla, per un po', qui dove anche io, più o meno senza costo, posso errare (fate un po' voi se più nel senso di sbagliare o di vagare).

lunedì 1 marzo 2010

passano i bastimenti

dopo essermi rotto le ossa per tutta la notte su un treno fetente fino a ventimiglia, scopro che i francesi scioperano a tempo indeterminato e che quindi il mio biglietto con destinazione aix-en-provence, dal confine in poi, non vale più un cazzo. succede in un momento imprecisato tra le cinque e le sei del mattino, il mio cervello prenderà servizio non prima di tre ore da adesso, quindi al momento sono a corto di idee. si deve vedere parecchio, visto che più o meno tutti gli altri passeggeri della carrozza in cui sono sistemato si sforzano di darmi qualche consiglio. ti conviene tornare indietro, grazie ci penserò, ma lo sai che san remo in questa stagione è davvero bella, grazie lo terrò presente, ma lo sai che se riesci ad arrivare fino a menton, poi c'è un pullman privato che forse funziona, grazie buono a sapersi. non riesco nemmeno ad essere preoccupato, quindi faccio l'unica cosa che uno bloccato a ventimiglia, più o meno a metà strada tra il luogo di partenza e quello di arrivo, possa fare tra le cinque e le sei di un mattino di metà dicembre.
cerco un bar.
barista un caffè, che poi chi lo sa se a ventimiglia lo si può ancora chiamare caffè o già è diventato ciofeca. ecco il caffè al signore, grazie. zucchero, giro, sorseggio. buono sto caffè, barista ti sei guadagnato un cliente, veramente io preferirei una mancia. il barista c'ha ragione ma io la mancia non glie la lascio lo stesso.
neanche faccio a tempo ad uscire dal bar che incontro un tipo, un canadese fuori di testa, che mi si rivolge con spiccato accento dei parioli. le sei ore successive sono così assurde che credo di averle sognate. jean francois, così si chiama il matto, dice di fare per professione il rappresentante di una fabbrica d'armi, dice pure che è famoso, in italia, è stato pure da mauriziocostanzoshow, ci è stato perché ha tentato di rapire i due figli alla ex-moglie italiana che non voleva più farglieli vedere (e chissà come mai!?). in effetti è credibile questo fatto che, se fai qualcosa di sbagliato, da noi vai in tv, mica in galera, ma secondo me, questo è solo un cazzaro, magari un tantino al di sopra della media. vai a sapere il motivo, mi lascio convincere a seguirlo, forse perché non so come dirgli di no, forse il fatto è che, con quegli occhi spiritati e la parlantina a scatti, mi fa veramente paura sto tipo. comunque sia, rimango coinvolto in una serie incredibile di autostop a catena, nel tentativo di utilizzare una macchina della polizia di montecarlo come taxi abusivo e l'ultimo pezzo del viaggio fatto estorcendo un passaggio a pagamento a un furgone, che non glie ne fregherebbe un cazzo di arrivare fino a nizza per noi. ma jean francois non è tipo che accetta un no come risposta e quello alla fine si fa convincere.
sul lungomare di nizza, mentre ormai temo che non riuscirò mai più a scollarmi lo psicopatico dalla giubba rossa (si fa per dire), quello trova un tipo disposto a portarlo in moto fino a marsiglia, dove lo attende un aereo che, non ho capito bene perché, deve prendere assolutamente, questione di vita o di morte, dice lui. mentre lo vedo sparire sulla motoretta, mi viene da pensare che forse così cazzaro poi non doveva essere e a ripensarci un certo brivido mi corre dietro la schiena.
una volta solo, mi guardo intorno e mi viene da pensare che ora sì che sono davvero fottuto. è praticamente impossibile per uno come me, che ha 19 anni e mezzo, in tasca solo settantamila lire e un biglietto del treno, valido esclusivamente da ventimiglia a scendere, che per di più non parla una cazzo di parola in francese, anzi una sì, merci, ma la pronuncia male, per uno così, dicevo, è impossibile arrivare fino a destinazione, a quasi 200 km da dove sono adesso. quasi quasi mi viene da piangere.
mi sistemo su una panchina per riflettere e un barbone si mette a fissarmi, devo fare pena anche a lui, penso, con la faccia appesa che mi ritrovo o forse è preoccupato che stanotte gli rubi il giaciglio. a un certo punto mi dice pure qualcosa che, a giudicare dal tono, non deve essere molto cortese. io non so come rispondere, quindi gli dico, merci, e me ne vado.
a spasso per un altro po'. però questa cacchio di nizza è bellina, c'ha una passeggiata sul mare veramente niente male. sarà per il sole di dicembre, che uno non se lo aspetta, sarà per il fatto che alle panchine ho capito che è meglio se non mi ci avvicino, ma mi viene in mente che il posto migliore dove riposare un po' e magari vedere se il cervello si rimette a funzionare, forse è proprio la spiaggia.
infatti col culo sulla sabbia tutto sembra più semplice. sono a piedi nudi, vestito con un discretissimo maglione arancione a spine di pesce blu e verdi, è un regalo di mamma per natale scorso, brutto in culo ma caldissimo e, siccome stavo andando in francia, quindi al nord, ho pensato che era meglio vestirsi pesanti, adesso sono in spiaggia coi francesi che mi guardano e pensano, però quel barbone che bel maglione arancione che c'ha, adesso sono qui e pure se non so che fare, già mi sento un pochino meglio.
è più o meno allora che mi accorgo di quante navi stiano passando davanti a me. partono, arrivano, chi lo sa che fanno o dove vanno e chi lo sa perché. a guardarle mi passa del tutto la preoccupazione, anzi, quasi quasi mi sento felice. guarda che bello il mare anche fuori stagione e guarda queste navi che, pure se sono lente a comparire e poi a sparire, mi sembra che coi loro tempi lunghi e i loro modi pacati ci hanno capito tutto della vita.
credo che il sonno mi sia arrivato proprio mentre pensavo quella cosa lì delle navi. una delle migliori dormite della mia vita.

giovedì 25 febbraio 2010

niente da dichiarare

volevo mettere questa foto perché mi piace, è semplice, a farla non c'è voluto nulla, nessuno sforzo creativo, solo ho alzato il muso e ho chiuso l'otturatore come una palpebra magica.

è probabilmente per tale circostanza che non riesco ad agganciarci nulla di ragionato. perché dietro non c'è nulla.

giovedì 18 febbraio 2010

immortalare il passo


vorrei pasti buoni da mangiare
e sapori soffici per dormire,
per viaggiare, per partire.

vorrei sapere del sole, delle strade,
delle nostre imperfezioni vaghe.

capire le stanze bianche,
dipingerle solitarie e intense.
masticare la compagnia,
indigesto pasto, appetitosa utopia.

vorrei immortalare il passo
che trema, l’anima in campana,
confezionare una vita sana
su una gamba sola, vorrei
una visione umida che
senza pensarci, mi consola.


dieci anni fa, la macchina fotografica stava quasi sempre in un cassetto. era un gioco stupendo, già allora, ma troppo troppo costoso. eppure il desiderio di scomporre i pensieri in immagini, credo di avercelo sempre avuto.