martedì 14 giugno 2011

periplo


non so che ti farei
accarezzerei fin dentro
coi denti i gorghi tuoi
frugherei con gli occhi
e a nuoto andrei
da un morso all'altro
fin dove non si tocca
tra il ventre tuo
e la bocca.

'liberamente tradotto da un poeta arabo anonimo del XVI secolo'

oscurantismo


arrivo in città in anticipo. pacevecchia, un quartiere che non si è mai capito cosa sia. sono qua perché devo fotografare uno dei quattro candidati a sindaco di benevento mentre va a votare. come altri suoi concorrenti, questo candidato qui ha fatto sapere informalmente alla stampa l'orario in cui verrà al seggio e, come tutti gli uomini pubblici di questa città piccola piccola, si sta facendo aspettare. una volta ho letto da qualche parte che la tendenza a comportarsi come 'prime donne' è inversamente proporzionale all'importanza del ruolo pubblico ricoperto. non so se sia sempre così ma, come massima di tipo generale, devo dire che ci prende.

il fatto è che, quando un uomo con una macchina fotografica deve stare in un posto ad aspettare e intorno si muovono persone, allora l'uomo con la macchina fotografica si mette a scattare. e può capitare che si imbatta in un bimbo che spiega al fratellino ancora più piccolo di lui che qualche cattivone ha improvvidamente incollato un manifesto tutto bianco con una orrenda scritta nera messa per traverso proprio sulla faccia di un signore che lì ci aveva già fatto incollare il suo di manifesto.

che facciamo? chiede il più piccolo, telo dico io, risponde l'altro, fai come me. e sotto gli occhi di vigili urbani, carabinieri, presidenti di seggio e scrutatori in pausa sigaretta, rappresentanti di lista assonnati, candidati in incognito, camorristi in missione, semplici cittadini votanti e no, i due teppistelli si mettono a strappare via ampi lembi di quei fogli che il comune appone per oscurare le affissioni abusive.

e io penso che questa sia poesia

sabato 23 aprile 2011

est, est, est!

squilla il telefono, mentre sono immerso nel sonno più profondo. cerco di capire dove mi trovo intanto che mi riverso giù dal letto, gli occhi ancora strizzati, finendo bocconi su un pavimento gelido. lo squillo continua a trapanarmi i timpani, faccio per guardarmi intorno e mi ritrovo in una stanza completamente rivestita in radica di noce, un posto che non mi dice nulla. dalla porta socchiusa entra un fascio di luce bianchissima, deve sembrarmi così per via del fatto che fino a pochi istanti fa ero immerso nel buio compatto del riposo. ma non ho il tempo per ragionarci, perché il telefono continua a tintinnare ferocemente e, come per una sorta di istinto primordiale, come se fosse una campana d'allarme, non si riesce proprio a fare finta di niente, almeno io non ci riesco. dunque mi precipito verso il punto in cui sento suonare, in fondo a un corridoio tutto invaso di luce potente, sbiadito quasi dall'eccesso di bianco. cavolo, nulla del posto in cui mi trovo mi è familiare. ormai, però, sono lanciato verso una stanza che si allarga alla fine del corridoio, al centro della quale si distingue appena un grosso e vecchio divano dall'aspetto polveroso con accanto un tavolino dai tubolari ottonati e il piano in cristallo. lì sopra finalmente vedo il telefono, uno di quelli della sip di colore grigio topo che una volta avevamo più o meno tutti in casa.

arrivo trafelato a prendere la cornetta, pronto, ..., pronto c'è nessuno?, ehm, pronto cercavo claudia, una voce maschile dal tono alquanto perplesso mi dice così, guarda, rispondo, io mi chiamo luigi, e più o meno è tutto quello che gli so dire, visto che al momento non mi ricordo nemmeno dove sono. lui sta in silenzio un tempo imprecisato ma abbastanza lungo e poi mi chiede se ha fatto il numero giusto, scusa ma ho chiamato lo 076131..., io vorrei anche rispondere ma davvero non lo so se quello è il numero giusto e glie lo dico, mi dispiace ma non lo so se questo è il numero che hai chiamato, mi sono appena svegliato e non so neanche che ore sono, non ho ancora capito nemmeno dove mi trovo e non so neppure perché ti sto dicendo tutte queste cose, beh io credo di aver fatto il numero giusto, mi dice lui un po' piccato, è quasi mezzogiorno, claudia è la mia ragazza e nemmeno io so chi sei e cosa ci fai lì!, ah, ecco, io non so che dirti quindi non ti dico niente, ora scusa ma ti saluto, ciao, ciao.

adesso la cosa si sta facendo preoccupante. cerchiamo un attimo di fare mente locale. sono in mutande e maglietta, ho un discreto cerchio alla testa e, a quanto mi dicono, è mezzogiorno e io fino a pochi istanti fa mi trovavo ancora a letto. azzardo un'ipotesi: ieri sera ho bevuto molto da qualche parte e siccome alla fine mi ero combinato una monnezza e non ce la facevo più nemmeno a muovermi, devo essere rimasto a dormire qui, ospite di qualcuno che al momento non riesco proprio a ricordare chi sia. è possibile che si tratti di una ragazza di nome claudia ma non saprei dire altro. mi sa che mi vado a mettere i vestiti addosso, cerco un bagno e poi vedo di capire che cosa mi è successo.

dopo essermi messo con la testa sotto il rubinetto e aver infilato di nuovo i jeans, mi sento pronto ad affrontare quasi tutto. la casa dove sono è sicuramente una di quelle da studenti, con tutta la mobilia vecchia ma, stupore, quando guardo fuori dalla finestra non sono in nessuna città. qua intorno è tutta campagna a perdita d'occhio. c'è un piazzale qui sotto, in cemento, e un cancello si intravede in lontananza, alla fine di un lungo vialetto d'accesso.

faccio un giro fuori e scopro che questa casa, che all'interno è sistemata come una tana per animali universitari, invece all'esterno è né più né meno che una cascina di campagna, un pochino diruta. c'è un'aria fresca e primaverile, l'erba cresce verde e incolta un po' dappertutto ma non è per niente fastidiosa. girato l'angolo della casa mi ritrovo davanti a un porticato sotto al quale una ragazza esageratamente alta e dai capelli dorati sta stendendo il bucato. probabilmente mi ha sentito arrivare, perché si gira e mi saluta. e finalmente ricordo tutto.

io sono luigi, ho 21 anni e sono, almeno formalmente, uno studente universitario. ieri sera sono venuto a casa di giampaolo, l'amico con cui sto preparando l'esame di linguistica generale. simpatico giampaolo, è catanese lui, se lo vedi sembra un impiegato del catasto o il segretario di un notaio, insomma uno che, a vent'anni, già si veste e si atteggia come un pensionato, e poi ti dice che fa il bassista in un gruppo death punk che si chiama endorPHina (oh lui', col PH grande però, che vuol dire tutta un'altra cosa!) e si è modificato il basso elettrico da solo, limandoci i tasti per farsi un fretless artigianale.

ci siamo fermati con la ripetizione verso ora di cena, visto che claudia, la sua coinquilina in questa bella casa di campagna a sette chilometri da viterbo, aveva fatto un piatto di pasta anche per noi. a tavola c'era del vino, cioè non proprio a tavola ma in una tanichetta di plastica da 5 litri posata a terra accanto alla mia sedia. insomma mangi, chiacchieri, bevi, soprattutto bevi, e si fa piuttosto tardi e ti scopri piuttosto ubriaco. giampa' ma io mo' sai che faccio? mi butto sul divano, qui in soggiorno, e domani scendiamo direttamente insieme per l'appello, cetto lui', non ti preoccupare, mi dice lui, anche perché siamo solo con la macchina tua, gli ricordo, e non penso che te ne tiene di accompagnarmi fino alla città in queste condizioni, non ti preoccupare lui' dormi qua, tanto c'è camera di simonachenoncèmai (poverina 'sta ragazza, l'ho sempre sentita nominare così 'simonachenoncèmai', tutto attaccato). giampa' allora domani mattina sveglia alle otto, appello alle nove e speriamo di avere culo.

giampaolo la mattina dell'esame di linguistica generale, completamente dimentico di avermi ospitato la sera pirma, se ne è andato all'università e, non vedendomi arrivare, mi ha cercato ovunque per i corridoi della facoltà, sconvolto per il fatto che, dopo aver studiato con lui fino alla sera prima, non mi fossi più presentato all'appello, dove comunque lui ha sostenuto l'esame, conseguendo il risultato di 27/30 ('a ..... d''a mamma).

claudia, a proposito, ma io mo' come ci torno a viterbo?, eh, ti tocca aspettare che torna giampaolo oppure, se vuoi, ti presto la bicicletta, io ho solo quella. altrimenti posso chiamare vito, il mio ragazzo, e ti faccio venire a prendere da lui?, ehm no, mi sa che aspetto giampaolo, allora visto che è quasi ora di pranzo, che ne dici se ci cuciniamo qualcosa e magari ci finiamo il vino di ieri sera?, 'ste ragazze siciliane pensano semp' a magna', beh, tanto una volta perso l'appello sto in vacanza, finiamoci 'sto vino, ma che roba è? che non me lo ricordo proprio, est, est, est!

giovedì 21 aprile 2011

fare le cose con le mani

la capacità di guardarsi intorno con gli occhi della fantasia, e riuscire a immaginare cose che non esistono, sognare di farle nascere dalla materia che ci circonda, su cui camminiamo, che portiamo addosso, dalla quale cerchiamo riparo, questa dote semplice e naturale è una delle cose che mi affascina di più.

gli esseri umani lo sanno fare da quando sono esseri umani e forse quei pochi che ancora ci si dedicano, sono gli unici esseri umani originali rimasti.

in fondo, quando penso al lavoro in generale, mi viene in mente qualcuno che fa cose con le mani, che ne so, taglia, manipola, monta, insomma, qualcuno che definisce lo spazio intorno a sé.


l'esatto contrario


ué ma tu mica lo sai qual'è il contrario di premonizione?, e certo che lo so. aspetta un secondo che ci penso e te lo dico!, che poi io mi domando ma chi me lo fa fare di infilarmi in queste situazioni qui, sarebbe tutto più semplice se dicessi, guarda, non lo so proprio, e basta. invece mi fanno questa domanda qui, o magari me ne fanno un'altra, e io, al posto di levare mano subito, mi viene sempre da pensare che la risposta la so o magari ci posso arrivare. in pratica si tratta di presunzione (contr. 'umiltà') bella e buona, del fatto che uno pensa sempre di riuscire a svangarla e fare più bella figura così, piuttosto che tacendo con dignità (contr. 'volgarità').
che poi, se la vogliamo dire tutta, ma che domanda è mai questa? il contrario di premonizione? io neanche lo so che vuol dire premonizione! vabbe' questa è un po' un'esagerazione (contr. 'minimizzazione'), almeno a conoscere il significato delle parole, l'80% delle volte, c'arrivo.
alla fine il contrario (contr. 'sinonimo') di qualcosa è facile da trovare, basta prendere gli elementi compositivi e arrevotarli. certo, se non si fa attenzione al risultato invece di un contrario si finisce per dare vita a un paradosso (contr. 'ovvietà') ... mica male.

ps. premonizione (contr. 'constatazione')

mercoledì 9 marzo 2011

ascoltare musica con gli occhi


all'università, in una di quelle belle case dove solo agli studenti capita di andare ad abitare (o che solo agli studenti sembrano così belle, mah?), c'era questa musica che continuava a uscire dalla finestra del palazzo di fronte. roba classica, suonata per ore. veniva da una stanza arredata in stile moderno e un po' minimal, in cui spiccava una scala in muratura bianchissima dai gradini in legno di faggio e senza ringhiera, che probabilmente saliva verso un soppalco. l'edificio era uno di quei palazzoni di fine settecento con le cornici a stucco in stile neoclassico, quindi l'interno non ci azzeccava niente ma a me dava una bella sensazione.


a starsene lì, a studiare sul tavolo in veranda, si finiva facilmente per sbirciare dentro quella finestra così a portata di sguardo. dopo un po' mi sono abituato ai movimenti anonimi di quella stanza e ho cominciato a capire delle cose. la musica, ad esempio, non usciva mica tutti i giorni e a tutte le ore. la mattina quando le persiane erano accostate e il caldo estivo entrava meno, non capitava mai di sentirla, mentre, non ti sbagliavi, durante la settimana, al tramonto, il concerto ti accompagnava flebile almeno per un paio d'ore.


ci ho messo qualche mese per capire chi ci abitasse, chi si esercitasse tutti quei giorni, chi davanti a quella finestra facesse persino ginnastica, chi vi lasciasse in giro vestiti che davano l'idea di essere stati abbandonati lungo la difficile strada per il letto dei rientri alcoolici notturni. 


alla fine l'ho capito ma non mi sono presentato mai e mai ci ho parlato. ho sempre pensato mi interessasse maggiormente l'immagine che avevo costruito, piuttosto che la sua versione reale.

mercoledì 16 febbraio 2011

io non posso entrare


deve essere stato quando facevo le scuole elementari. sì. all'epoca ero bambino. sì. checché se ne dica, io le scuole elementari le ho fatte all'età giusta, una sola volta e non sono mai stato bocciato. forse ci sono andato vicino in terza elementare ma il mio non era proprio un ritardo mentale, è che non capivo a pieno quello che facevano gli altri e il più delle volte reagivo male. sì, avevo tutti e due i genitori allora. lo so, può sembrare un'affermazione banale ma di lì a poco ce ne avrei avuto solo uno. in effetti non è che si notò molto la differenza, tanto patemo non c'era mai, però mi sembrò lo stesso una cosa brutta, quando accadde.

un giorno ci vennero a svegliare, a me e mio fratello, e ci dissero che era venuto mio zio e ci avrebbe portato a fare una gita. ve lo potete immaginare che vuol dire quando il primo pensiero al risveglio è stato che devi andare a scuola e la cosa ti fa felice come un condannato che deve andare al patibolo, dico, ve lo immaginate se un secondo dopo vi dicono che la pena è condonata, al patibolo ci si va domani, forse, ma per oggi festa, vacanza, gioia di vivere, cose così? che grande sensazione!

purtroppo però quella volta lì, a metà mattinata, ci dissero che la festa non era una festa ma un funerale. e che cavolo, pensai, con tanti modi per imparare che è sempre meglio andare a scuola, non ne potevano trovare uno meno doloroso? non ci potevano, che ne so, raccontare di pinocchio, lucignolo e le recchie d'asino? che magari faceva un po' paura e un po' faceva riflettere ma alla fine imparavi senza grosse conseguenze. no. si scelse il funerale, si scelse.

quando tornammo a casa, non eravamo di buon umore, si può capire, e non eravamo nemmeno vestiti bene, mi venne da pensare. che colpo vedere tutta quella gente che era arrivata a casa, che non riuscivano nemmeno a entrare, avevano dovuto parcheggiare le macchine fin sullo stradone, lontanissimo. io così tante macchine nella zona nostra ricordo di averle viste solo alla festa di san marco a monterone ma quella era una festa veramente. sì, forse ci saremmo dovuti sistemare un pochino meglio. se ci avessero detto qualcosa, che ne so, bambini vedete che più tardi si sta a lutto, vestitevi scuro, una cosa così. invece niente.

mamma, tutte le volte che veniva anche una semplice coppia di amici di famiglia a farci visita, ci faceva una capa tanta, che dovevamo stare composti, che non ci dovevamo imbruscinare per terra con i vestiti buoni, che se possibile dovevamo evitare di far piangere gli altri bambini o almeno cercare di farlo succedere verso la fine delle visite e non all'inizio, che poi, se no, l'atmosfera si faceva troppo pesante. chissà come stava nervosa mamma che, con mille persone a casa, noi eravamo in tuta e scarpe da ginnastica.

per fortuna si capì subito che si trattava di una cosa per grandi. infatti, a parte me e mio fratello, di bambini non ce n'erano. pensai pure che da qualche parte ci doveva stare mia sorella ma quella era piccola, faceva solo tre cose da quando era nata, dormiva, poppava e cacava e di sicuro stava con mamma a fare questo. un po' mi sarebbe piaciuto a quel punto capirci qualcosa di più, magari vedere la mia mamma che mi sapeva spiegare le cose in modo che io le capivo. chiesi un po' in giro dove potevo trovarla, avrei voluto chiedere a qualcuno che conoscevo, perché mi avevano spiegato che era meglio non parlare con gli sconosciuti, ma in quel cacchio di posto, che poi era casa mia anche se non sembrava, erano tutti sconosciuti, quindi mi misi a chiedere un po' alla rifusa. alla fine qualcuno mi disse che mamma stava sopra che riceveva. che cosa ricevesse non lo capii ma l'importante era che sapessi dove andarla a cercare. così mollai mio fratello vicino al caminetto, che era l'unico punto di riferimento che mi sembrò non fosse cambiato in soggiorno, e mi intrufolai su per le scale, tra la foresta di gambe e pance che mi ostruiva il passaggio.

mi ci volle una traversata di parecchi minuti per arrivare sopra. sì. eppure in condizioni normali ci mettevo meno di due secondi. le scale a casa mia erano divise in due rampe, una lunga, di 21 gradini, e una corta, solo di 5. venendo da sotto la tecnica per affrontarle era la seguente: si prendeva la rincorsa da fuori al portone, che era proprio di fronte alla rampa, e con un solo balzo si atterrava direttamente sul pianerottolo, se non proprio in piedi almeno sulle ginocchia, da lì con una mini rincorsa si poteva anche raggiungere il terzo gradino della seconda rampa ma non conveniva farlo, perché poi ci si inchiommava là e finiva la corsa. no, era meglio saltarne solo due, di lì rimbalzare sul piede per altri due verso la ringhiera dove, aiutandosi con le mani, si poteva sperare di arrivare, con una tecnica da saltatore con l'asta, almeno fino al decimo gradino. poi bisognava per forza farli di corsa, a due a due.

ma quel giorno di prendere la rincorsa non se ne parlava proprio e persino le scale erano strapiene di persone.  mi toccò salire un gradino per volta, evitando per di più di finire schiacciato tra quelli che salivano e quelli che scendevano, tutti comunque lenti come lumache. quando riuscii ad arrivare in cima, stavo finalmente per svoltare a destra, in camera dei miei, quando mi presero per le spalle, addo' vai tu? 'cca è meglio ca non trasi, mi dissero e mi trascinarono via. feci appena in tempo a vedere mia madre seduta su una sedia, con la faccia gialla e un fazzoletto bianco in mano che pareva un asciugamano, tanto era grande, però mia sorella non ce l'aveva lei. vidi pure che c'era qualcuno sdraiato sul letto matrimoniale dei miei genitori, tutto vestito. non riuscii a vederlo bene, nell'infrusteco mi riusci di osservare solo i piedi. portava una paio di scarpe tutte messe a lucido con la cromatina che parevano nuove. poi mi portarono via, nella stanza di fronte, la mia cameretta. lì c'era mio fratello, che non lo so mica come aveva fatto ad arrivarci se lo avevo lasciato poco prima, mezzo in coma per il trambusto, giù vicino al camino, e c'era mia nonna, con la bambina in braccio che non stava mangiando, e dunque o era tranquilla perché dormiva o perché... vabbe'.
a guardarla così paffuta e calma, tra le braccia enormi di mia nonna, mi venne in mente che forse era meglio così, che fosse così piccola intendo, perché a occhio e croce quella giornata lì, noi un pochino più grandicelli ce la saremmo ricordata a lungo.

martedì 11 gennaio 2011

sheol


quando andremo all'altro mondo, a seconda del modo in cui preferiamo prenderci in giro, finiremo per trovare fiamme ardenti e figure mostruose a torturarci in eterno oppure cori di beati e aliti celestiali, che non devono essere tanto più rilassanti. oppure uno stuolo di vergini e intere mandrie di fantastici destrieri (ammettiamolo, anche questo privilegio da sceicchi alla lunga stancherebbe chiunque), o altre vite, su altre vite, su altre vite, a rendere l'esistenza una sorta di brodaglia indistinta di ripetizioni apatiche.


deve essere per questo che nell'antico testamento gli ebrei delle origini, togliendosi dall'imbarazzo, risolvevano la cosa inventandosi 'sheol'. dopo morti, per i primi figli di adamo si finiva lì, indipendentemente da se si fosse stati fedeli o meno, da se ci si fosse comportati bene oppure no. un posto buio in cui si era semplicemente lontani dalla luce di dio.


insomma, se proprio devo credere a qualcosa, spero avessero ragione loro. il fatto è che io fin da quando sono bambino proprio non lo sopporto di dormire con la luce accesa.