martedì 29 settembre 2009

hasan, come?

hasan è un prigioniero arabo. lo hanno preso i turchi non lontano dalla rocca, stava cercando una breccia o qualche via di accesso praticabile per riuscire nella conquista di questa imprendibile città insieme ad altri suoi compari. certo la sua non è una situazione facile, è un soldato che è stato catturato dal nemico non sul campo di battaglia ma mentre tentava un attacco a sorpresa, e questa cosa qui non è proprio ben vista. si è beccato l’accusa di essere un attentatore alla sicurezza della città, cosa indiscutibilmente vera, e anche quella di essere una specie di terrorista dell’epoca, certa propaganda insomma non ce la siamo inventata noi adesso. risultato, condanna a morte sicura. cazzo, hasan a tutto pensava, quando è partito da damasco al seguito del suo sultano, ai bottini, alle avventure, alle donne, magari anche a una morte onorevole, ma di fare la fine del topo, strangolato in una cella umida scavata nella solida roccia, questo proprio non può mandarlo giù. i turchi poi sono gente sbrigativa, efficiente, ieri ti hanno catturato, oggi ti condannano a morte e puoi stare sicuro che entro il tramonto di domani il tuo corpo sarà appeso a una fune fuori dallo strapiombo a farsi mangiare dalle cornacchie. così, pensano loro, se altri volessero riprovarci sapranno cosa li attende, niente nuda terra, niente paradiso con le vergini, solo cornacchie. e ad hasan, questa cosa delle cornacchie proprio non gli piace.

al mattino seguente, poco dopo l’alba, vengono due guardie a buttarlo giù dal paglione, vogliono portarlo sul bastione della cittadella, perché dicono che devono fargli vedere una cosa. mamma mia quella mattina il povero hasan che brutto quarto d’ora che passa, gli tremano così tanto le ginocchia che nemmeno ci riesce a camminare e i due giannizzeri devono portarlo a braccia. intanto hasan è lì che pensa, passi per l’efficienza ma qui si esagera, io avevo creduto sarebbe successo al tramonto, tipo mentre mi portavano la ciotola con l’ultimo pasto, la guardia mi avrebbe preso alle spalle e mi avrebbe fatto uscire gli occhi dalle orbite, strangolandomi così, senza quasi farmene accorgere. e invece dove mi portano, cos’è che vogliono farmi adesso sulla cittadella, stai a vedere che hanno deciso di impiccarmi direttamente dal bastione, mi legano una fune intorno al collo e mi buttano venti metri più sotto, dove per il contraccolpo la cervicale si spezzerà e la testa resterà ancora viva per qualche secondo a guardare quello che una volta era stato il mio corpo penzolare un buon metro più in basso, attaccato solo per la pelle ormai. ma i turchi, che quella mattina si vede che non c’hanno proprio niente di meglio da fare, in realtà vogliono solo fargli vedere dove appenderanno il suo corpo, fargli fare conoscenza con le cornacchie che se lo spolperanno, divertirsi un po’ con lui insomma, e dopo pochi minuti lo riportano indietro. tornato in cella hasan pensa due cose, la prima è che si è pisciato nei pantaloni e la seconda è che le cornacchie gli stanno proprio sul cazzo.

quando è partito, suo padre ahmed glie lo ha detto non si sa quante volte, prima di lasciarlo andare via, tieni sempre la testa sulle spalle, tieni sempre la testa sulle spalle, e lui scemo non l’aveva certo interpretata in senso letterale. ah, è proprio vero che quando si raggiunge quell’età in cui il momento di andarsene è più vicino di quello in cui si è arrivati, spesso si riconosce che i nostri vecchi ci hanno donato, attraverso le loro parole, la via per giungere al volere di allah, che sempre veglia su di noi. e anche questa è un’altra cosa che succede, quando si sta più di là che di qua, pensa hasan, si diventa molto molto più religiosi. e proprio mentre se ne sta lì a cercare di ricordarsi almeno qualcuno dei novantanove nomi di allah, tanto per sgranare qualche buon rosario con le catene che lo tengono prigioniero e tirare un po’ su il suo credito presso il misericordioso, hasan viene colpito, fulminato quasi da quanto è vero quello che ha appena pensato, cioè che nelle parole di suo padre si compie il volere di allah. aspe’ come gli disse di preciso il vecchio ahmed quando lo salutò, no, non la cosa delle testa sulle spalle, cosa disse subito prima, quel buon vecchino che, nella sua infinita bontà, allah non permetterà mai che sopravviva al proprio figlio e, siccome ancora non è il momento di ahmed, allora l’onnipresente sarà d’accordo che non può essere nemmeno quello di hasan, come cazzo disse ahmed. ah, ecco, erano nella stalla, lui stava per sellare il suo solito baio berbero, sheraz, quando ahmed gli disse, no, prendi zehir, il mio stallone arabo, il tuo è un buon cavallo ma senza sorprese, sia nel bene che nel male. quando si va in guerra, alle volte serve di poter volare. aveva detto proprio così suo padre, alle volte serve di poter volare.

è passata da poco l’ora della preghiera del mezzodì, quando hasan si mette a fare voci in cella. i suoi compagni di sventura, dalle gabbie accanto, pensano che il poveretto deve essere impazzito ora che sa di dover morire. adesso si è messo a sbraitare che i turchi non si stanno comportando come uomini, che va bene condannare a morte uno come lui e che ammette anche di essersela meritata la sua fine, ma non si è mai visto che a un condannato non si conceda almeno l’ultimo desiderio. gli altri prigionieri sono lì a pensare che adesso al povero hasan, invece di ammazzarlo e basta, verranno a spezzargli le gambe e le braccia e, se non la smetterà di gridare, gli taglieranno anche la lingua e gli faranno esplodere gli occhi con un ferro arroventato e poi lo strangoleranno lo stesso, naturalmente. in effetti anche hasan è preoccupato che finisca così ma, se vuole mettere in opera il suo piano, allora non ha scelta. quando la porta della cella si apre e gli si para davanti uno dei giannizzeri che la mattina si è divertito con lui, hasan pensa che le cose stanno andando proprio come ha calcolato. il colosso con la faccia da mulo coi baffi, quando entra, fatica a tenere le risa che gli scoppiano, pensa di avere davanti il classico esempio di meschinità araba, uno che di fronte alla morte si piscia sotto e che adesso farebbe di tutto per tentare di ingraziarsi i suoi aguzzini, magari anche vendere i suoi compagni, e vuole proprio vedere fino a che punto questo arabo piccolo piccolo vuole arrivare. così gli chiede quale sarebbe questo ultimo desiderio ed hasan, pronto, gli dice che vorrebbe per l’ultima volta cavalcare il suo bel destriero, cui è tanto affezionato, che gli è stato sequestrato quando lo hanno preso. naturalmente lo sa, dice hasan, che non lo lasceranno mai andare a farsi un giro a cavallo ma lui si accontenterebbe di montare il suo zehir anche solo per poco, anche nel punto più alto e sicuro della rocca, anche sul bastione, sì. la guardia si allontana ragliando e torna subito dopo con una risposta affermativa. i grandi turchi sanno essere misericordiosi come insegna allah e concedono ad hasan di fare un ultimo giro sul suo cavallo, in cima al bastione. in cambio quando scenderà da cavallo lui sarà così gentile da rivelare loro il luogo dell’accampamento del suo sultano.

mentre monta zehir e lo porta al trotto in una sorta di piccolo giro sulla punta più alta della rocca, proprio sopra lo strapiombo creato dal passaggio del fiume tirgi, mentre guarda con piacere il fiume insolitamente ingrossato per la stagione, hasan pensa a quello che deve fare, pensa che anche volendo non ha altra scelta e comunque è meglio finire così che asfissiato dalle mani di un turco. pensa a tutto questo, hasan, e a suo padre ahmed che prega per lui, e ad allah, che sia fatto il suo volere. pensa poi alle forti zampe di zehir, quando lo lancia a tutta briglia verso il parapetto del bastione e lo spinge al salto più lungo che un cavallo abbia mai fatto, per cento metri giù nella gola fino a schiantarsi, ad esplodere letteralmente al contatto con l’acqua. del povero cavallo non rimangono che i finimenti e le costole fracassate ma il suo padrone è in acqua, ancora vivo. il colpo è stato tremendo ed hasan ricorda solo di aver visto per un istante il suo cavallo volare in mezzo alle cornacchie, una volta tanto prese alla sprovvista. la corrente già lo trascina via e passerà un bel pezzo prima che riesca a toccare terra, con le ossa rotte, fradicio, ma per volere di allah tutto intero.

e come un colpo di cannone l’incredibile fuga di hasan fa il giro di tutta la città e arriva anche alle celle della galera, dove i suoi compagni increduli si chiedono, hasan, keif?, hasan, come?

ora, ammetto che possa sembrare proprio una di quelle cose inverosimili che mi invento io di solito ma questa volta, a parte l’aggiunta di qualche piccolo irrilevante particolare, la storia è né più né meno che l’autentica leggenda sull’origine del nome hasankeif.

domenica 27 settembre 2009

salto nel tigri

si tratta di una strana cosa, quella che mi è capitata oggi. non ho capito bene come sia accaduta ma su questo pulmino il tempo invece di andare avanti si è messo ad andare all’incontrario. quando ci sono salito, sono sicuro, era il 2009, io ero a diyarbakır e l’orologio, che non porto, marciava inevitabilmente nella giusta direzione o comunque andava avanti.

il problema, se così lo si può definire, ha cominciato a manifestarsi quando mi sono messo a guardare fuori dal finestrino. certo non si può dire sia stata colpa mia. vorrei vedere voi mentre siete su un aggeggio tutto sgangherato, pieno di moquette e nastrini, che corre ad una velocità indefinitamente alta, comunque ben oltre i suoi limiti strutturali, guidato per di più da un criminale con evidenti istinti omicidi-suicidi, mentre vi spostate lungo la valle del fiume tigri, da diyarbakır a batman, sì sì, proprio come l’uomo pipistrello, e poi fino ad hasankeif. in una situazione del genere c’è poca scelta, perché la strada è meglio non guardarla, che questo hannibal lecter del volante, quando vede che di fronte arriva qualunque cosa sia più pesante di un paio di tonnellate, tipo un autotreno a pieno carico, un trattore con due strati di pecore sul rimorchio, un carrarmato, allora decide che è arrivato il momento di mettersi alla prova e superare la macchina con famigliola che ci sta davanti. giurerei che il pazzo alla guida si mette anche a fare quel versaccio da maniaco con la bocca, quella sorta di risucchio ossessivo che fa sempre il dottor lecter prima di “cenare con un amico”, mentre fa il pelo all’equivalente turco di una fiat regata con a bordo padre, madre, un altro paio di donne non meglio precisate e un numero variabile tra 4 e 6 bambini, per un totale di 8-10 esseri umani, schivando appena il pesante tank turco, il quale, detto per inciso, non vede l’ora di acciaccare sotto i cingoli un pulmino pieno di curdi, senza doversi neanche giustificare.

per quanto riguarda l’interno del mezzo poi, è meglio non perderci proprio tempo, non sia mai dovessi trovare qualcosa di talmente indecente, tipo un buco nel pavimento, da non poter fare a meno di chiedere qualcosa all’osama bin laden delle strade a scorrimento veloce. non ci voglio nemmeno pensare a cosa sarebbe capace di fare se si distraesse.
insomma godersi il viaggio non è cosa, quindi non mi resta che guardare fuori, cercando di concentrarmi sul paesaggio. la strada scivola come una fettuccia sottile di asfalto, neanche tanto malandata, lungo il fondo della valle, in piano. è confortevole, se non si pensa a quel dart fenner multijet che tiene in una mano la mia vita e nell’altra un cellulare con cui adesso sta mandando messaggini chissà a chi. il panorama è mozzafiato, la spianata si apre calma ed immensa alla vista, per chilometri e chilometri attorno al fiume, che si muove appena, appisolato qui più o meno dalla notte dei tempi. incontriamo gli ultimi segni di cosiddetta civiltà poco dopo batman, manco a dirlo, una caserma dell’esercito. i militari di guardia nelle torrette sembrano soldatini di altri tempi, con quegli elmetti tanto più grandi delle loro teste e quelle semplici magliettine verdi mi ricordano le foto dei padri dei miei amici quando lo facevano loro il militare, negli anni sessanta e settanta. e qui già mi sarei dovuto preoccupare ma, in fondo, che ne potevo sapere io della piega che avrebbero preso le cose. dopo pochi chilometri non incrociamo più automobili o autocarri e lo psycho-autista, anche se un po’ a malincuore, deve calmarsi perché tirarsela con un carretto trainato da un mulo non sarebbe dignitoso nemmeno per lui. intanto le montagne sono arrivate e la valle letteralmente sparisce, all’improvviso. la strada si arrampica per un pezzetto e poi torna giù in una gola bella profonda, perfettamente scavata a forma di fiume. al suo interno non c’è spazio per nulla, solo il greto del tigri e un angoletto per la strada.

mi viene da pensare che qui la civiltà non c’è mai arrivata e invece dovrei dirmi che non c’è ancora arrivata, perché è evidente che siamo nel 1900 o giù di lì e fino a quando non arriviamo ad hasankeif non riesco a crederci davvero.
quando finalmente scendo, vorrei quasi buttarmi in ginocchio e baciarla questa terra antica, per lo scampato pericolo, ma lo spettacolo indecoroso di un omino del futuro che si contorce e si libera in scongiuri, decido che glie lo voglio risparmiare agli abitanti di hasankeif.
il posto è incredibile. sono sul fiume e la rupe che mi sovrasta sarà alta almeno ottanta o novanta metri. lungo tutta la sua statura è piena di buchi, che da qui sembrano forellini ma che invece sono le imboccature di una miriade di grotte e canali. sono le antiche case degli abitanti di hasankeif e un certo numero di queste è ancora frequentata. la maggior parte delle cinquemila persone che abitano qui però si è trasferita in case vere e proprie già al tempo dei romani o dei bizantini o dei sassanidi o vattelappesca. da dove sono io si deve scegliere se salire su, arrampicandosi fino in cima al canyon, o se scendere sulla sponda del fiume. ci penso per meno di un secondo, hasankeif può attendere, prima devo fare una cosa, devo proprio toccarlo questo cavolo di fiume tigri, devo sentirne l’acqua con le mani, ci voglio proprio saltare dentro. e allora ci vado e poi, visto che ci sono, mi fermo pure a mangiare in questa sorta di locale che in realtà non è un locale ma una palafitta appizzata nell’acqua del fiume con tappeti e cuscini su cui stare sdraiati e da dove guardare un po’ l’antica rupe urbana, un po’ i piccoli nomadi che pescano nel fiume come mamma li ha fatti.
solo alla fine mi ricordo che devo fare un po’ di foto perché se no finisce che non ci crede nessuno che sono andato indietro nel tempo sul fiume tigri e pazienza se mentre le riguardo mi pare che sembrino foto di cento anni fa. in fondo è normale, visto che lo sono davvero.

sabato 26 settembre 2009

ho solo 158 foto

vorrei passare un po’ di tempo a scrivere, questo vorrei fare, ma il social forum è iniziato e qui nella loro sede è difficile trovare la concentrazione giusta. persone che entrano e che escono, altre che semplicemente passano. tutte però si fermano al tavolo dove sono sistemato io, perché sopra c’è un piatto pieno d’uva a disposizione di chi ne vuole. l’uva qui è uva davvero, no come da noi. quando ero bambino l’uva era uva anche dalle nostre parti, perché veniva dalle viti e non dai banchi del supermercato. nei primi giorni d’autunno con mio fratello non facevamo altro che andarcene in giro per la vigna a rubare i grappoli migliori, quelli più maturi. i chicchi erano piccoli e tutti attaccati fitti fitti uno all’altro, il sapore, zuccherino ed aspro al tempo stesso, dopo un poco ti stordiva per quanto era concentrato. quando staccavi i grappoli dalla pianta, dovevi sempre fare attenzione a che non ci fosse qualche vespa pronta a pizzicarti perché gli avevi sconcecato il pasto e, a fine giornata, tornavi a casa immancabilmente col muso tutto appiccicato e gonfio per le punture. io quell’uva lì non l’avevo mai più vista e la ritrovo adesso.

mentre me la guardo affatato, indeciso se provarla oppure no, e fanculo a tutte le indicazioni sanitarie che si danno ai viaggiatori occidentali, quando si allontanano dal loro mondo di cellofan e lysoform, il trambusto intorno a me si fa ancora più intenso, al punto che sono proprio costretto a capire di che si tratta. corrono tutti più di prima, come se ci fosse un appuntamento che proprio non possono perdere e allora è meglio sbrigare in fretta le ultime faccende. tra gli altri passa una ragazza che conosco, cioè in realtà no. il fatto è che qui, dopo mezza volta che ti sei incrociato con qualcuno, allora lo conosci. al secondo cenno di saluto, non conta da che parte del mondo vieni e nemmeno se sei mai riuscito a scambiare qualche parola in una qualsiasi lingua comune, tutti ti si rivolgono chiamandoti my friend. secondo me un po’ deve essere perché vatti a ricordare il nome di tutti e un po’ perché è oggettivamente difficile pronunciare nomi il più delle volte incomprensibili, in lingue mai sentite prima. quindi my friend. insomma questa mia cara amica, visto che è almeno la terza volta che la vedo e ben la seconda che proviamo a rivolgerci la parola, passando mi dice che c’è una manifestazione delle madri della pace. ora, in realtà io non so se lei mi abbia detto proprio, my friend vedi che sto andando alla manifestazione delle madri della pace, vuoi venire pure tu?, anche perché lei parla solo tedesco e qualche parola di turco ed io conosco a malapena l’italiano e in inglese so dire my friend e poco altro. fatto sta che ho capito, ho spento il pc e mi sono organizzato per andarci anche io alla manifestazione delle madri della pace.

sono già per strada quando mi ricordo di chiedere a gulê, ma queste madri della pace che sono? e gulê mi dice che in kurdistan, da quasi vent'anni o forse più, sparisce la gente. la mattina esce di casa per andare a lavorare, ad esempio al centro culturale curdo, e poi non torna più, o magari è venuta la polizia ad arrestarla, perché è in politica con il partito curdo, e non l’hanno rilasciata mai più e, se uno va a chiedere al carcere, ti dicono che a loro non risulta che sia mai stata fermata, quindi fottiti, o ancora, gente che se ne è andata sulle montagne per lottare coi guerriglieri ma loro, i guerriglieri, a un certo punto non lo sanno più che fine ha fatto. e poi, dice gulê, sono passati gli anni, cinque anni, quindici anni, in certi casi addirittura vent’anni, e nessuno mai che si rifacesse vivo, che mandasse una cartolina a casa, che so, una telefonata. e qui ci sono le mamme, che come le vesti vesti e qualsiasi lingua gli fai parlare sono sempre mamme e non gliene frega un cazzo della repressione dello stato turco, della galera che ciclicamente si fanno, delle botte, delle torture e di tutte queste cose qui, che devono subire, loro vogliono solo sapere i figli e le figlie dove stanno, perché non sono più tornati. queste madri, che ora qui tutti chiamano le madri della pace, ogni sabato scendono in piazza e si portano appresso ognuna la propria foto, bella incorniciata, la staccano dalla parete del salotto, dove la tengono di solito il resto della settimana, e in piazza la agitano sopra la testa per farla vedere a tutti.

vabbe’ francesca mi ha raccontato tutto questo ed io ci credo, per carità, ma lei me ne parla come se fosse un’ecatombe e io penso, ma allora se fosse così grande questa cosa si sarebbe saputo, come per i desaparecidos, tutto il mondo ne avrebbe parlato e invece niente.
ecco, sto pensando proprio questa cosa qui quando mi compare davanti il corteo delle madri della pace. io non sono bravo a contare ma, a vedere tutta questa gente, mi capita di pensare due cose, una è che sono bellissime, tutte in abito tradizionale, tutte con una o due foto in mano, camminano fiere, si affollano una addosso all’altra, come i chicchi di quei bei grappoli d'uva che ho appena lasciato, senza toccarli, sul tavolo del msf, gridano slogan e cantano a squarciagola, saranno almeno 5.000 e queste sono solo quelle di diyarbakir, e l’altra, consequenziale, è che in questa manifestazione ci sono almeno 5.000 scomparsi presenti in immagine, 5.000 morti buttati in qualche fossa comune negli infiniti altopiani curdi, 5.000 prigionieri politici detenuti in carceri abusive di cui si sono perse le chiavi da tempo, 5.000 esseri umani di cui ancora si piange la mancanza, dei quali ancora non ci si rassegna alla scomparsa.

questo corteo, all’apparenza così festante e colorato, è in realtà un corteo di fantasmi.
io intanto penso che devo scattare foto, penso che devo trovare il coraggio di mettere la camera in faccia a queste persone, che sembrano allegre ma, se le guardi bene, hanno tutte gli occhi rossi, penso che la devo cacciare la faccia di cazzo stavolta, perché è troppo importante fissarli in immagini, così come li sto vedendo io in questo momento. penso tutto questo e in realtà, come prevedibile, non ho capito niente. non faccio neanche in tempo a scendere dal bus che mi ha portato fin qui e già la prima mamma mi si mette davanti e mi punta in faccia, lei a me, la foto di suo figlio. io, stordito, punto e scatto. dietro di lei ce n’è un'altra, e accanto un’altra ancora, punto e scatto, e mi sento battere a schiaffi sulla spalla, mi giro attonito e ce ne sono altre, potrebbero essere mie nonne, mie madri, mie sorelle, sono dappertutto intorno a me e mi tirano, mi chiedono di riprendere non loro ma le loro foto, le mettono davanti alla faccia, non per timidezza ma perché, si sa, i fotografi cercano le immagini toccanti, gli occhi delle mamme ed io in questo momento sono proprio uno di quei bastardi lì e loro allora mettono le foto davanti, come a dirmi, vuoi fotografarmi, allora fotografa anche l’immagine di mio figlio, guarda anche quanto era bella mia figlia. io punto e scatto, penso alla luce e scatto, penso alla messa a fuoco e scatto, io non posso dire di no, non posso dire di no a nessuno, il loro dolore ha la priorità su tutto adesso. voglio solo fare tutto quello che mi dicono ma non ci riesco, non riesco ad accontentarli tutti, io ho solo 158 foto, e loro sono 5.000 e si accalcano e mi premono e rimango incastrato e non ho vie di fuga, non le voglio nemmeno le vie fuga, ma come faccio a dirgli che da un po’ sto scattando a vuoto, come glie lo spiego che non ci sono più foto per loro.

mi tirano ancora ed io riesco solo a dire una delle poche cose che ho imparato in turco, tamam, va bene, accetto, continuo ad accettare fino a quando sento una mano che mi abbraccia e vedo questo ragazzo, che sembra un uomo ma avrà si e no la mia età, che si mette in mezzo e, anche se non lo capisco, so che dice lui alle madri della pace quello che io non avrei mai il coraggio di dire, dice che adesso basta, che mi stanno travolgendo, non lo vedono che non ce la faccio più.
mi trascina via e, solo quando non sono più nella folla, mi lascia con una pacca sulla spalla e mi dice, spas, che in curdo vuol dire grazie. è lui a dire grazie a me. sono fuori e non me ne frega niente. vorrei solo avere una macchina fotografica da 5.000 scatti, per tornare lì in mezzo e dire a tutte loro che non c’è problema, se anche mi acciaccano un po’, che tanto io una foto per ognuna di loro ce l’ho questa volta e che devono avere solo un po’ di pazienza.

martedì 22 settembre 2009

bambini vs. poliziotti

i bambini, numerosi e rumorosi, sono la naturale risposta curda alla presenza armata turca.

i poliziotti qui non si muovono mai da soli ma almeno in coppia. i bambini, invece, anche quando stanno buoni in macchina con i loro genitori, non sono mai meno di cinque. 1-0 per i bambini.

i poliziotti qui sono sempre armati di kalashnikov o altri gingilli da guerra e quando sparano lo fanno prendendo bene la mira. anche i bambini sono pieni di pistole, di tutte le fogge e colori, verdi, nere, dorate, argentate, ma le loro sono di plastica e, quando le usano, non fanno male nemmeno ai gatti. al massimo sparano piccoli petardi, tanto per spaventare quelli come me, ma per gioco, e poi se la ridono. 2-0 per i bambini.

i poliziotti qui hanno davvero i piedi piatti. i bambini invece spesso i piedi ce li hanno nudi, perché sono bambini e le scarpe le farebbero a pezzi in due giornate, così le mamme glie le mettono solo quando c’è il bayram, la festa del ramadan. nonostante ciò i loro piedi sono bellissimi lo stesso. 3-0 per i bambini.

i poliziotti dicono, scherzando tra loro, che l’unico modo per risolvere la questione curda sarebbe quello di eliminare tutti i loro bambini, ma chi lo fa questo lavoraccio, dicono, che quelli sono più numerosi delle rondini in cielo. i bambini non hanno il senso dell’umorismo dei poliziotti, pensano solo a giocare e nemmeno per scherzo si sono mai sognati una cosa così atroce come eliminare tutti i poliziotti. 4-0 per i bambini.

nel marzo del 2008, i poliziotti, durante la repressione del newroz, la festa del capodanno curdo, dove i bambini erano terribilmente in prima fila a lanciare sassi contro i mezzi blindati, in una sorta di insensato gioco da adulti, si sono divertiti a spezzare il braccio ad un bambino davanti alle telecamere dei giornalisti, così, per dare una lezione.

i bambini a volte si lasciano trascinare. i poliziotti non sono mai dei giocherelloni.

lunedì 21 settembre 2009

carpet story

da quando sono arrivato qui tutti mi dicono di fare attenzione, sei un fotografo e frequenti i curdi quindi sei in pericolo. ma io non capisco e me ne frego. e poi, dico, ma qui sono tutti curdi, il 95% della popolazione di diyarbakir è curda. di turco ci sono solo l’immagine di atatürk e la bandiera con la mezzaluna e la stella, che campeggiano provocatorie in ogni angolo della città, è normale frequentare i curdi, dico. mi dicono, ma tu qui devi stare attento soprattutto alle spie curde, ma io non capisco e quindi non troppo me ne frego.

insomma, dico, ma devo stare attento ai turchi o ai curdi?, alla fine mi dicono che devo fare attenzione sì, ma senza formalizzarmi troppo, turchi o curdi, tanto sono italiano ed europeo, agli europei e agli italiani in particolare non fanno mai niente. domando, ma ai non europei e addirittura proprio ai curdi che fanno invece? dicono, niente, cioè non si sa, cioè dopo che ti prendono, se torni, non è che torni con la voglia di raccontarlo. ma devo stare tranquillo, che mica succede tutti i giorni, anzi è piuttosto raro ultimamente, sarà almeno una settimana che non sparisce o non viene arrestato nessuno. e poi io sono europeo e italiano addirittura, che mica lo so perché noi italiani dovremmo avere un trattamento preferenziale, forse perché all’epoca abbiamo consegnato apo öcalan ai turchi, forse vantiamo questo onorevole credito.

la mia amica gulê, che si chiama francesca ma tutti i curdi la chiamano gulê, che in curdo vuol dire rosa, e io non capisco perché una che si chiama francesca la devono chiamare rosa, però ormai la chiamano così pure a casa sua quindi, gulê mi dice che i curdi sono troppo apprensivi con noi occidentali e che in realtà non è poi più pericoloso di andare in giro per le strade di palermo o napoli. e qui comincio a preoccuparmi seriamente.

per fortuna c’è garip. garip è il mio nuovo amico curdo che parla italiano e si offre, per la causa e per ospitalità, di fare da guida, traduttore, perfetto intrattenitore e soprattutto cara persona per me e gulê. lui mi dice che devo stare attento ma che non è tanto pericoloso, dice che i curdi tengono molto in considerazione gli europei e in particolare gli italiani, che io non capisco perché, visto che cosa abbiamo fatto con il loro leader, e lui mi dice che invece a noi italiani i curdi ci vogliono bene perché almeno ci abbiamo provato a non consegnarlo e siamo stati gli unici a farlo. io allora dico, mah.

garip prima sta un po’ zitto e poi mi dice ancora che non devo preoccuparmi, dice che il peggio che può capitarmi è che qualche spia cerchi di ottenere informazioni da me. ma io, garip, informazioni non ne ho, almeno credo. garip, ma io ne ho di informazioni? garip, che è curdo ma parla l’italiano, perché un po’ è stato in italia, vicino salerno, quindi, lui dice, è un curdo napoletano, e pure un po’ paraculo ma in senso buono, aggiungo io, garip mi dice che non è che ho informazioni segrete ma le spie magari vogliono solo capire cosa faccio qui e chi frequento. e io, garip, se incontro una spia cosa gli dico?, soprattutto come la riconosco una spia, garip?, dice garip che le spie si riconoscono subito, perché si comportano come i tuoi migliori amici prima ancora di averti detto come si chiamano, sono bravissime a farti un sacco di domande personali senza che neanche te ne accorgi e non dicono mai niente su di loro e neanche di questo ti accorgi, se non ci stai facendo proprio caso.

tamam?, dice garip, va bene?, sì va bene ma se incontro una spia e la riconosco, garip, non mi hai detto cosa devo fare, e garip, che parla napoletano come un curdo ed è paraculo come un italiano, mi dice, digli che vuoi accattare un tappeto. ora io questa cosa qui del tappeto non l’ho capita bene e allora glie lo chiedo a garip, che gliene frega, garip, alla spia che io voglio comprare un tappeto?, il mio amico curdo napoletano, che c’aveva una nonna armena e infatti lui, con la sua barbetta incolta e la carnagione più chiara della mia sembra proprio un pope ortodosso, mi dice che la maggior parte delle spie non ce la fanno a tirare avanti solo con le soffiate che fanno alla polizia e ai servizi segreti, e allora sai che fanno, dice garip, vendono tappeti. sono un po’ confuso ma garip sembra così serio mentre mi dice tutte queste cose di spie e tappeti che non posso non crederci, e poi sono in medio oriente e mettere in dubbio quello che mi ha detto sarebbe inospitale e l’ospitalità per i curdi è sacra. garip, ok io ci credo a questa cosa qui del tappeto ma io poi il tappeto non me lo voglio comprare veramente e come faccio se quella, la spia, poi me lo vuole vendere sul serio?, e io che ne so, dice garip, tu mi hai detto che eri preoccupato se ti succedeva qualcosa di brutto e ora invece sei solo preoccupato di come fare a non comprare un tappeto, è meglio no?

sabato 19 settembre 2009

cose turche


ho passato le ultime settimane a dire a tutti che stavo partendo per il kurdistan. ma insomma dov’è che vai?, in kurdistan, mi hanno detto che vai a fare delle foto e cosa vai a fotografare?, il kurdistan, vai in vacanza, eh? beato a te! e la destinazione è?, il kurdistan, ah. la reazione è stata più o meno sempre la stessa. ah. sarà che la maggior parte delle persone neanche sa cos’è il kurdistan, sarà che quelli che lo sanno e che avevano pensato stessi partendo per un viaggio di piacere non hanno altro da dire se non, ah, sarà forse che tanto non glie ne frega un cazzo a nessuno di dove vado a sbattere io e quindi, una volta fatta la domanda di circostanza, non trovano di meglio per troncare un discorso, ah.

il punto è che tutti sanno che sono in kurdistan e invece io sono in turchia, ah. cioè l’area geografica è davvero quella curda ma qui è turchia. me ne sono accorto subito dopo essere sbarcato ad istanbul, mentre aspettavo di salire sull'aereo che mi avrebbe portato qui a diyarbakir. la turchia, la più occidentale delle nazioni mediorientali, non solo per posizione geografica, non araba, non fondamentalista, nemmeno tollerante.

in attesa di salire sul mio volo mi soffermo a guardare gli altri passeggeri, così, per capire. ci sono uomini d’affari in giacca e cravatta, sempre al cellulare, e hanno le facce che vedo alle volte al telegiornale, quando passano le immagini degli sbarchi di clandestini. ci sono coppiette di fidanzati mano nella mano, che ho dovuto rivederle nelle foto per rendermi conto della loro presenza, perché sono talmente normali da noi che uno non ci fa caso e ti colpisce di vederle in un paese islamico e invece anche qui sono così normali che uno non ci fa caso e devi rivederle sulle fotografie per farci caso.

poi ci sono donne velate, donne in caftani che arrivano fino ai piedi, donne con foulard variopinti e trasparenti, delicatamente portati su complicate acconciature, donne come le vedresti in un documentario sull’iraq, donne e basta. ci sono persino due puttane nigeriane, altissime, abbondantissime, attillatissime, a testimonianza del fatto che ogni mondo è paese.

infine ci sono anche io, fuori luogo ma non troppo, a mio agio ma nemmeno tanto, frastornato come sempre. ho imparato tre parole in turco ma non le ricordo, ho conosciuto una decina di persone e non ho fatto lo sforzo di memorizzare il nome di nessuno.

lunedì 7 settembre 2009

il dono dell'obliquità

lecce. due passi in centro. la città bianca, nemmeno tanto affollata, si apre fresca. non è la prima volta che ci vengo ma giro distratto, col naso in su tra i vicoli, sbattendo addosso agli altri passanti. faccio come le palline del flipper, scelgo una traiettoria, tiro dritto finché non incontro un ostacolo, ci rimbalzo contro, chiedo scusa imbarazzato e mi rimetto su una nuova traiettoria.
in verità non me ne frega niente della pietra leccese, delle facciate di chiese e palazzi, della mancanza di ortogonalità (non sono neanche sicuro di sapere cosa voglia dire...). mi ingrippa l'idea di poter fare foto a colori, senza colori. cerco quei posti dove luci e ombre si mescolano bene, senza pensare a molto altro, ammatondandomi un po' nel frattempo.

dopo due ore di sponde, mi metto seduto sulle gradinate di sant'irene e mi prendo un po' di minuti per respirare. accanto a me si sistema un omino singolare. è vecchio, direi molto vecchio, sarà alto un metro e mezzo, le gambe sono due stecchi ricoperti da una pelle non più elastica da tempo. indossa un paio di pantaloncini cachi da esploratore d'altri tempi e una camicia bianca misto cotone e acrilico, di quelle comprate al mercato dai cinesi. è quasi completamente calvo, l'abbronzatura eccessiva della pelata è scomposta in un puzzle di tessere, separate da profondi solchi color carne viva, le tracce di una scottatura trascurata. porta dei grossi occhiali quadrati fumé dalla montatura metallica dorata e in mano stringe una di quelle macchinette fotografiche di cartone usa e getta. la tiene con una mano sola, lontana dal viso, come fosse una di quelle compatte digitali che imperversano ovunque. è strano. si gira intorno con uno sguardo indagatore, le sopracciglia bianche e pelosissime, accartocciate sull'attaccatura del naso come un ventaglio semichiuso e quando nota qualcosa che lo colpisca, chissà mai perché, raddrizza il braccio, punta la macchina fotografica e poi fa una cosa insensata, piega la testa da un lato, il più possibile, segue con la macchinetta il movimento del collo e poi scatta tutto storto, senza neanche guardare davvero dentro l'obiettivo.

è la terza volta che lo incrocio. l'ho già visto al duomo e a sant'oronzo e tutte le volte se ne è stato lì a fare la stessa cosa, scegliere dei particolari in base a criteri tutti suoi e poi riprenderli belli storti. stavolta mi sta così vicino che quando lo vedo puntare la macchina per l'ennesima volta, butto un po' indietro la schiena e distrattamente mi piego per trovarmi più o meno alle sue spalle e poter seguire con attenzione tutta l'operazione. sbircio la linea del suo braccio fino alla macchina e guardo dritto in faccia un pezzo della balaustra del balcone che sta puntando, poi, quando piega testa e macchina, faccio lo stesso e quasi assecondo con un piccolo scatto muscolare del collo il click della foto. una volta terminata tutta l'operazione e giratosi, l'omino strano mi trova ancora tutto inarcato alle sue spalle e mi guarda come se il matto fossi io (in effetti anche svariate decine di turisti di passaggio fanno la stessa cosa...). e mo' che mi ha beccato così, non posso certo fare finta di niente, qualche cosa glie la devo pure dire, prima che pensi che gli volevo scippare la macchinetta!
scusate- il voi dalle parti mie con gli anziani è segno di rispetto - stavo guardando cosa riprendevate. vi posso chiedere perché fate le foto tutte storte, il vecchio si sistema meglio sul gradino e si mette a ricaricare la rotella della macchinetta, mentre mi sorride sornione.
vedi, io sono di lecce e siccome non ce li ho i soldi per andarmi a fare le vacanze da un'altra parte, allora me le faccio qui.
sì vabbe' ma questo non mi spiega perché fate le foto con la macchinetta storta, mi fissa per una frazione di secondo, cala lo sguardo alla macchinetta un'altra volta, poi mi guarda in faccia di nuovo, come se stesse per svelarmi chissà quale grande segreto.
il fatto è che io queste pietre le conosco a memoria, tutte. e allora le foto le scatto diverse, perché così mi sembrano dei posti nuovi.
un paio d'ore più tardi, davanti a una cedrata con granita di limone, mi capita di pensare che sì, quel vecchio bislacco mi ha davvero svelato un grande segreto... per fare in modo che la realtà, la propria realtà sia sempre nuova, alle volte può bastare di storcere un po' lo sguardo.
in alternativa, si può sempre venire a lecce.