sabato 30 gennaio 2010

con un occhio solo

passavo il tempo a fingere di dormire, tutte le volte che potevo. la mattina lei smontava tutto e rassettava il caos di quel buco di stanza in cui viveva, che solo ad un erasmus potevano affittarne una così. sbatteva e arieggiava lenzuola e copriletto con metodo, ed io mi rigiravo, vestito a metà, sul vecchio materasso a molle, ingiallito dalle notti di chissà quante persone. e la spiavo con un occhio solo.
lei era bellissima ed agile. con gesti elettrici e precisi rimetteva a posto quello che io avevo sconcecato durante la notte.

era piacevole cominciare le giornate guardandola vivere, come se io non ci fossi. la osservavo attento mentre si lavava, con i capelli raccolti sulla nuca, quando sceglieva che vestiti mettere, svanita per metà in un armadio parallelepipedo e sgangherato, le sbirciavo i piedi, nudi e aggrappati al pavimento solo con le punte.
poi si faceva colazione insieme e subito le sue mani si trasformavano in calamite per gli occhi. mi godevo tutti quei movimenti frettolosi, di una che è abituata a fare le cose in poco tempo, tra caffettiera bollente e latte freddo e niente zucchero, per carità. alla fine scappava all'università ed io, mentre usciva, le guardavo anche un po' il culo.

a rimanere solo in una casa che non è la tua, anzi che non è di nessuno, ci si sente fuori luogo quasi subito. così, poco dopo averla vista svanire da uno scorcio del balcone, calavo nei vicoli e mi mettevo a girare, chiudevo un occhio ogni tanto e mi facevo guidare dalla luce che sbatteva in giro un po' a casaccio. scattavo. era bello andare a bere un cicchetto fuori orario, che lì facevano un vino da sentirsi la bocca come punta dalle vespe già dopo il primo sorso.

quando era ora, smettevo di perdermi e me ne andavo al mercato, un posto dove potevi passare sempre. se ti veniva voglia di assaggiare una fragola da una bancarella, il tizio che ci stava dietro te ne offriva un'altra, per invogliarti a comprare da lui.

da quel mercato tornavo sempre carico di cose fresche e squisite. qualche volta cucinavo, qualche altra aspettavo che lei rientrasse, e basta così, per farmi trovare che dormivo ancora. cavolo, fuori c'è il mondo e tu dormi?, ma come fai?, diceva lei, con un sorriso elegante sul muso. io non rispondevo, però, perché stavo dormendo. ma non era vero. è che volevo guardarla ancora, con un occhio solo.

giovedì 7 gennaio 2010

la fregatura della solitudine

dicono che quando si scatta si sia soli. allora, se faccio foto, deve essere perché mi piace stare solo. deve essere perché in questo straniamento, nel quale a piacere si decide cosa sia degno di essere raffigurato e cosa no, mi ci trovo bene, ci sguazzo. starsene a guardare la realtà degli altri, fottersene del loro giudizio e della loro opinione ma mirare solo all'essenza, anzi all'evidenza del contesto, tutto questo è, deve essere da individualisti. la solitudine deve piacermi davvero. tanto che se passo il tempo a intrecciare brandelli di comunicazione per immagini, se tengo un blog dove spiegare quello che vedo, non ci si illuda che possa trattarsi di una qualche forma di necessità di contatto con gli altri, no, deve essere più per una manifestazione di egocentrismo invece.
certo, se ammettessi che stare solo mi fa paura e che, in realtà, la fotografia, la scrittura, sono probabilmente un modo per esorcizzare tale paura, per rendere accettabile quell'odiosa condizione in cui mi capita di essere, che non è magnifica solitudine, ma piuttosto insulso isolamento, se dicessi una cosa del genere, tutto quanto ho scritto sopra si capovolgerebbe all'improvviso, facendo di me una sorta di filantropo, magari solo un po' autoreferenziale.
ecco, è proprio per evitare tali implacabili controindicazioni che sarebbe meglio prediligere sempre le foto di gruppo.