mercoledì 28 aprile 2010

controsenso

si dice che fotografo sia chi, quando tutti guardano da una parte, invece di fare lo stesso, si mette a guardare tutti.

questa cosa qui mi piace molto.

domenica 25 aprile 2010

liberazione

'a uerra è 'na schifezza. lo diceva mio nonno.

io questo nonno qui non l'ho mai conosciuto, è morto un poco prima che nascessi ma conservo da qualche parte le sue medaglie e so che parlava con cognizione di causa. a giudicare dalle patacche che gli hanno dato, infatti, e facendo due rapidi calcoli, ho capito che è stato in libia nel 1911, per la conquista della quarta sponda, e poi in trincea per tutta la durata della grande guerra, dal 1915 fino al 1918. alla fine è tornato, con una serie di croci di metallo e pure tutto intero. mi hanno raccontato però che il nonno era un omino tranquillo e cordiale ma sempre un po' lontano con la testa, come se le faccende di tutti i giorni fossero distrazioni e quello che gli girava dentro, e che sapeva solo lui, invece fosse veramente importante. secondo me sto fatto, con gli anni di atrocità praticate e subite in guerra, doveva entrarci.

cosa pensasse mio nonno della guerra me l'hanno detto una volta che ero dal barbiere. avevo 11 o 12 anni e ogni mese mia madre, andando da maria, la parrucchiera che stava di bottega proprio affianco, mi lasciava da angelo, il barbiere appunto. quel posto mi metteva un po' in soggezione, era tutto moderno e pieno di spigoli pittati di nero e di bianco, anche dove non si capiva perché ce li avessero messi. tutte le volte che ci andavo, dentro trovavo il padre di angelo, un vecchiaccio vestito male e coi capelli e la barba trascurati che però mi sorrideva e mi salutava sempre, a dispetto del fatto che la differenza di età imponesse l'esatto contrario. era vedovo da un sacco di anni e non è che avesse tutti questi soldi, per cui certe cose se le doveva fare da solo. è per questo che era sempre un po' trasandato. però il fatto della barba e dei capelli, considerato che passava le giornate nella bottega del figlio barbiere, veramente non me la sono mai riuscita a spiegare.

fu proprio questo signore qui, una volta, a dirmi che lui sapeva chi ero, che ero figlio di antonio il dottore, buonanima, che a sua volta era figlio di luigi, dio lo abbia in gloria, ed io portavo quel nome proprio perché lo avevo preso dal nonno. lo guardai senza dire niente ma si doveva capire che stavo pensando che era rincoglionito. avevo 12 anni, mica 2, lo sapevo benissimo che portavo il nome di mio nonno. lo so che lo sai perché ti chiami così, aggiunse lui a quel punto, quello che non puoi sapere però è che per me tuo nonno era una persona veramente importante, pace all'anima sua, perché una volta mi ha salvato la vita. doveva essere uno molto religioso il padre di angelo il barbiere.

e se ne venne con questa storia incredibile di lui ed altri tre o quattro ragazzotti del paese che, nell'ottobre del '43, erano stati beccati dai tedeschi. a fare cosa? niente, naturalmente. i crucchi si erano messi di base poco più giù, verso contrada iannassi, e siccome erano giorni che giravano a vuoto per tutte le masserie e non trovavano da mangiare, avevano deciso che era arrivato il momento di far capire a questi zotici, piccoli e neri, di italiani chi comandava. di conseguenza, rastrellamento e fucilazione, addò coglio coglio. sti poveri sciagurati erano stati portati sull'aia dei genito, a meno di cinquecento metri da casa mia, e lì era cominciata una macabra trattativa tra tedeschi e cafoni. dateci le cose da mangiare che tenete nascoste chissà dove, dicevano i primi, ma noi ci puzziamo di fame e non abbiamo niente di niente, rispondevano disperati gli altri, nein, siete belli paffuti, non sembrate morti di fame, cacciate la roba se no per questi poveri sciagurati, kaputt, ma quale roba, quale paffuti, che c'abbiamo le costole che ci escono da fuori. insomma, le cose si stavano mettendo davvero male.

capita allora che, al sicuro nella loro masseria, i fonzo che sono abbastanza vicini da seguire tutto, compresa la mala parata, decidono di correre a cercare aiuto. e sulla nazionale, proprio davanti casa loro, sta passando in quel momento mio padre, il quale se ne usciva a fare un giro con la giumenta. il giovane antonio, imboscato di guerra, a sentire quello che sta accadendo, pensa proprio che non è cosa di andarsi ad affacciare e se ne torna a casa a briglia sciolta. è così che mio nonno viene a conto della faccenda e, vai a sapere perché, decide di andarci lui dai genito, a vedere se si poteva trovare una soluzione.

quello che succede nell'incontro tra il nonno e il caporale del drappello nazista, il padre del barbiere non me lo sa spiegare con precisione, lui era troppo impegnato a piangere come un vitello, mi dice, si ricorda solo il nonno che gridava e che non si metteva paura, neanche dell'arma che, a intervalli regolari, il crucco gli puntava in faccia. il vecchio proprio non lo sa come fu ma alla fine i tedeschi se ne andarono e li lasciarono lì e il caporale, a lui almeno parse così, mentre partivano con la camionetta, fece pure una sorta di cenno di saluto.

il padre di angelo non se lo ricorda meglio di così cosa successe ma una cosa gli è rimasta impressa. quando mio nonno giunse sul posto, coi tedeschi che, a vederselo arrivare tutto trafelato, che gridava e faceva segni con le mani, per attirare l'attenzione, tirarono tutti su i mitra e si misero a gridare pure loro e forse stavano pure per sparargli, insomma, quando nonno luigi gli fu a pochi passi, si guardò intorno, allargò le braccia platealmente, le lasciò cadere di nuovo lungo i fianchi e poi, con una faccia sinceramente dispiaciuta, disse, 'a uerra è 'na schifezza.

domenica 18 aprile 2010

thòlos

precettato in pieno inverno per uno scavo archeologico d'emergenza. io me lo ricordo bene di aver detto di no, ricordo proprio le parole, non se ne parla, ho detto così, quindi non mi spiego come cazzo è che adesso sono sul pavimento di una tomba a camera, calato con una scala a corda da una voragine nel soffitto, tre metri più su. per vederci qualcosa, a circa metà scala, è stata attaccata una lampadina, dentro è tutto umido ma ci saranno almeno tre gradi in più rispetto all'esterno. i vantaggi delle pietre tufacee, fresche d'estate e calde d'inverno. quante volte l'avrete sentita sta cazzata? invece non è vero niente, qui la temperatura è costante tutto l'anno, è fuori che cambia.

intanto che scavo, mi infradicio il pantalone sulle ginocchia e comincio a non sentire più le dita delle mani per il freddo. farei volentieri due chiacchiere con qualcuno ma qui sotto non c'è nessuno e fuori c'è solo vincent.

vincent è un tipo roscio e grosso, che secondo me quando era piccolo gli facevano fare obelix alla recita della scuola. insomma non è che abbia proprio lo sguardo intelligente, vincent, poi è uno poco loquace e se ci mettete anche che è francese... non so se vi ho detto del mio problema con il francese. in pratica, il mio problema con il francese, come idioma intendo, è che non lo so.

nemmeno vincent sa l'italiano ma in fondo a lui che glie ne frega, lui sta in piedi nel caldo del suo piumino a fumare sigarette e quando io lo chiamo, vincent, dico, lui deve solo prendere la corda della carrucola e tirare su il secchio. che poi proprio un secchio non è. è una sorta di mezzo bidone metallico con un manico a cui è attaccata la fune. da pieno peserà una quarantina di chili, roba che solo uno ben piazzato come il francese può tirarlo su. e ci si deve pure mettere d'impegno.

infatti, un paio di volte è capitato che io lo abbia chiamato un po' troppo in fretta, vincent, ho detto, e poi non ho fatto in tempo ad agganciare il bidone che lui già era partito con il primo strattone, volando letteralmente a zampe all'aria. o almeno io lo immagino così, che da qui giù si è sentito solo una sorta di grido strozzato, un gran tonfo e poi vincent che parlava di mare. deve venire da una famiglia di pescatori o qualcosa così, vincent, perché ogni tanto se ne esce con sto mare di qua, mare di la o qualcosa così, sta tutto il tempo a dirlo.

secondo me si è convinto che io lo faccia apposta, tanto per ridere alle sue spalle, ma io non mi permetterei mai, cioè, a ridere rido ma mica sarei così meschino da farlo volare a terra ogni due per tre soltanto per passare il tempo. vabbe' forse lo farei ma a lui è meglio che non glie lo dico.

mentre faccio per raschiare via un'altra zolla di terra dalla parete, con la trowel, che poi sarebbe semplicemente una cazzuola piccolissima ma, se la chiami trowel, fa più indiana jones, insomma si comincia a vedere una sorta di incisione nel tufo. ci lavoro un po' vicino e capisco che si tratta di una scritta. quando, pochi minuti dopo, è tutta pulita, sono lì col cuore in gola, ansioso di decifrarla e già mi sento un novello champollion, quello che capì cosa cavolo volessero dire quei mammozietti nei geroglifici. in effetti pure lui era francese e sicuramente manco lui parlava l'italiano, vabbe' ma erano altri tempi.

a vederlo da vicino questo graffito non è che sia fatto proprio bene, si legge lo stesso ma sopra c'è scritta una cosa che non so come interpretare. c'è scritto, napoleone 1809. e che c'azzecca mo napoleone in una tomba etrusca? sembra come quando uno passa da qualche parte e, per ricordo, ci lascia la firma. come se io adesso mi mettessi a scriverci, luigi 1997, e chi cazzo se ne frega che io sono stato qui, certo magari di napoleone però qualcuno se ne frega. magari il mio amico in superficie sarebbe contento di vederla questa cosa qui. vincent, faccio, e poi mi ricordo con un istante di ritardo della faccenda della carrucola.

troppo tardi, quando riesco a dire qualcosa, che poi lui non capirebbe perché tanto è in italiano, sta già parlando di mare un'altra volta. quando si affaccia minaccioso dall'apertura, io gli faccio cenno di venire giù e vorrei spiegargli perché, ma mi viene in mente solo di dirgli, champollion, champollion, che a giudicare da come l'obeso salta sulla scaletta di corda, deve aver pensato che gli sto insultando la mamma. il fatto è che lui è talmente pesante e su quella scaletta ci si è gettato così tanto a peso morto che l'appiglio a cui l'avevamo fissata in superficie cede immediatamente e vincent viene giù come una montagna in frana, toccando terra a pochi centimetri da me.

sinceramente la cosa, a ripensarci, è anche ridicola ma lui, se non è morto nella caduta, di sicuro appena si riprende ammazza me e questa cosa qui mi fa passare la voglia di ridere. quando una decina di secondi dopo ricomincia a muoversi, sempre parlando di mare, io già sono in ginocchio, ad occhi chiusi, che gli indico il graffito, riponendo in questa cosa tutte le mie speranze di salvezza. il gigante si mette seduto ma non sembra imbestialito come sarei io al posto suo, no. anzi si ferma a guardare e questo mi conforta un po'. fa la faccia a punto interrogativo, si vede che nemmeno lui se la sa spiegare questa cosa qui che napoleone è venuto a mettere un autografo nella tomba etrusca. poi si avvicina, prende la cazzuola, lui è francese e quindi cazzuola gli suona più esotico, e si mette a pulire meglio intorno. salta fuori che davanti alla parola napoleone ci sta scritta un'altra cosa. la frase completa è, viva napoleone, 1809. vincent ridacchia un po' e, per la prima volta da quando ci conosciamo, si rivolge a me con frasi di senso compiuto, almeno credo, visto che lo ha fatto in francese e quindi chi lo sa.

si guarda intorno e vede la scala accartocciata accanto a lui. siamo bloccati qui dentro, almeno fino a quando tra un'oretta, a fine turno, ci verranno a prendere e ci aiuteranno ad uscire. a un certo punto vincent infila una mano dentro la giacca e ne esce fuori una di quelle fiaschette metalliche da alcolizzato, come si vedono nei vecchi western, la apre e me ne offre, cognac, mi fa. ora a me il cognac piace e in quella situazione, non sapete quanto ci stava bene un po' di alcool in corpo, ma, con tutto quello che gli ho combinato a questo qui, se prima non lo assaggia lui , col cavolo che mi ci vede bere. ma vincet in fondo è un buono, capisce le mie perplessità e ridendo si tracanna un lungo sorso in solitudine, vacci piano vincent, gli dico, che tu ci sarai sicuramente caduto dentro da piccolo, non hai capito, eh, vincent? poco male, anzi sta cosa che non parli e non capisci nemmeno è proprio rilassante. mi sa che la pensi pure tu così.

memorabile quella volta in cui rimasi prigioniero in una tomba etrusca a bagnarmi il culo sulla terra umida, sorseggiando ottimo cognac in compagnia di una colosso francese, con davanti agli occhi un muro crepato con su inciso, viva napoleone 1809.

e se qualcuno si sta domandando quale sia la morale, beh, è semplice, non andare mai in un posto dove non puoi procurarti da bere. non si sa mai quanto possa rendersi necessario un buon cicchetto.

sabato 17 aprile 2010

martedì 13 aprile 2010

visione privata

tornare a viterbo. è stato come quando cambi casa e poi vai a trovare i nuovi inquilini di quella vecchia. il posto è sempre il solito e uno ne conosce ogni segreto ma, per quanto tutti possano essere gentili ed ospitali, non è che ci si senta meno estranei.

domenica 4 aprile 2010

il contrario di un simbolo

ma c'è chi muore nel dirti addio".


"dimaco, ignori chi fu tuo padre,
ma più di te muore tua madre".


"con troppe lacrime piangi, maria,
solo l'immagine d'un'agonia:
sai che alla vita, nel terzo giorno,
il figlio tuo farà ritorno:
lascia noi piangere, un po' più forte,
chi non risorgerà più dalla morte".


"piango di lui ciò che mi è tolto,
le braccia magre, la fronte, il volto,
ogni sua vita che vive ancora,
che vedo spegnersi ora per ora.

figlio nel sangue, figlio nel cuore,
e chi ti chiama - nostro signore -,
nella fatica del tuo sorriso
cerca un ritaglio di paradiso.

per me sei figlio, vita morente,
ti portò cieco questo mio ventre,
come nel grembo, e adesso in croce,
ti chiama amore questa mia voce.

non fossi stato figlio di dio
t'avrei ancora per figlio mio".


i simboli, per loro natura, sono tutti intrinsecamente spersonalizzanti. prima ancora di credere o meno, mi fa impressione che gli uomini possano essere in tal modo semplificati, fino a diventare il contrario di se stessi. meno male che ci sono quelli come de andré.