venerdì 28 marzo 2008

garzone


sto leggendo in questi giorni un lavoro critico inedito su Abbas, il fotografo della Magnum, che mi sta entusiasmando parecchio.
e come tutti i neofiti, leggendo di quel mondo di senso e significato, che può nascondersi dietro ogni singolo scatto, mi pongo da solo sotto la mia personale lente: ma io, mentre scatto, a cosa penso? e prima di scattare? e quando guardo il disastro che ho impressionato e devo scegliere?
Abbas è un genio -quindi lungi da me il tentare improponibili paragoni- e per questo non sto troppo ad interrogarmi su cosa ci sia dietro al suo occhio (questo aspetto secondo me, una volta superato il limite della conoscenza del mezzo che si utilizza, è da considerarsi pura forza creativa), ma invece qualche domanda su come funzioni il suo metodo narrativo (come quello di tutti i fotografi che mi piacciono) me la sto ponendo. ecco che leggere una critica fatta bene in questo può aiutare! mi sembra di essere un "uaglione 'e poteca" che cerca di carpire la sostanza del mestiere non tanto dalle mani dell'artigiano, bensì dal suo sguardo.

sabato 22 marzo 2008

io non so fare foto


Realizzo questi scatti in occasione della finale di Coppa Italia di Volley che si è tenuta a Benevento. Le faccio come sempre, per me e a gusto mio. Soprattutto nel b/w mi piacciono i contrasti netti, l'annullamento dei particolari, il mosso ed il micromosso, le sgranature... insomma immagini che sembrano quasi disegni di un fumetto. Quando poi mi viene proposto di farle vedere a qualcuno allora mi pongo il problema... ma quello che piace a me, si capisce che non è semplicemente che non so fare foto?


mercoledì 19 marzo 2008

il sonno dei giusti

SCUSATE SE E' UN PO' LUNGO. BUONA LETTURA A CHI SE NE TIENE.

Dopo cena, giunta l’ora di andare a letto, Luigi ultimamente era sempre un po’ teso. Si guardava intorno, come a cercare un appiglio dove potersi aggrappare saldamente, per impedire che la mamma lo portasse in cameretta.

In effetti, nonostante a una certa ora gli occhi del bimbo non riuscissero proprio a stare aperti, Luigi preferiva di gran lunga restare appisolato sul divano, cullato dai suoni della TV e dal rassicurante affaccendarsi della mamma in cucina, intenta nelle ultime pulizie della giornata. Andare a letto, da un po’ di tempo a questa parte, lo metteva in apprensione.

Tutto il contrario di suo fratello, il quale di solito già dormiva allerta verso la metà della cena. Luciano, di un anno più piccolo di Luigi, era capace addirittura di prendere sonno mentre masticava. I suoi denti continuavano a ruminare aritmicamente il boccone che la mamma gli passava, mentre le palpebre cominciavano inesorabilmente a cadere su un paio di occhi fissi nel vuoto già da qualche minuto.

A Luigi sembrava ogni volta di vedere la pubblicità delle Duracell, quando i coniglietti col tamburo, che avevano un altro tipo di pila, si scaricavano restando immobilizzati a metà di un movimento. A suo fratello le pile finivano sistematicamente durante la cena, quando aveva il boccone in bocca, e ogni volta la mamma doveva tirarglielo fuori con due dita, prima di portarlo su, svestirlo e metterlo a letto col pigiamino. Il tutto senza naturalmente che il sonno di Luciano accusasse il benché minimo disturbo.

Luigi se l’era studiata un po’ quella situazione e aveva scoperto che il sonno del fratello non arrivava sempre allo stesso orario, ma variava a seconda dell’ora della cena. Una volta che avevano cenato presto, alle sette, Luciano era stato capace di addormentarsi con una patata fritta mezza spappolata in bocca e non si era più risvegliato, anche se la mamma non aveva voluto metterlo a letto così presto, per timore che poi si sarebbe ridestato nel mezzo della notte.

Dopo lunghe meditazioni Luigi aveva creduto di capire che il sonno arrivasse a Luciano solo con i cibi solidi e principalmente con quelli che gli piacevano di più. Infatti, se non capitava mai che Luciano si addormentasse con il brodo della pastina in bocca, spesso era successo con le patate fritte e con le cotolette alla milanese. Non aveva fatto caso se succedesse anche con la pasta al sugo, ma considerato che a Luciano piacevano in particolar modo le penne al pomodoro, non aveva dubbi che anche quel piatto gli facesse lo stesso effetto.

Ma c’era una cosa che più di tutte tramortiva il fratello alla prima cucchiaiata, peggio di un narcotico: la mela grattugiata. Con quella Luciano cominciava a barcollare pericolosamente sullo sgabello accosto al tavolo già mentre la mamma si industriava nell’operazione di grattugiamento, era praticamente privo di sensi col piatto davanti e cadeva letteralmente in uno stato comatoso non appena il cucchiaino gli depositava sulla lingua la prima porzione di mela.

Una volta capito il meccanismo, Luigi aveva usato queste informazioni segrete in più di una occasione nella quale non gradiva la concorrenza del fratello. Ad esempio, l’ultimo Natale aveva insistito particolarmente per avere la mela grattugiata per frutta, nonostante ci fossero a tavola mandarini, ananas e melone bianco. Ovviamente anche Luciano, sentendo del desiderio di Luigi, aveva voluto favorire e, come previsto dal fratello, era collassato sulle gambe della zia Renata, che gli sedeva accanto al tavolo della festa. Eliminato in tal modo l’unico concorrente, Luigi aveva potuto presenziare all’apertura dei regali da solo e giocare a piacimento con la pista delle macchinucce, senza essere disturbato da nessuno.

Era successo forse qualche settimana prima, dopo una cena di quelle che avrebbe steso il fratello anche alle dieci del mattino, la mamma aveva preteso che pure Luigi se ne andasse a dormire e, dopo avere deposto il catalettico nel suo lettino, seguendo un rigido protocollo assolutamente necessario per conciliare il sonno, si era avvicinata al letto del figlio maggiore, gli aveva rimboccato le coperte e con voce bassa, per non disturbare Luciano, si era messa a raccontare.

La mamma tutte le sere raccontava una storia e tutte le sere era una storia diversa, anche se alle volte si trattava dello stesso argomento. Luigi chiudeva gli occhi felice e si preparava a volare con la fantasia dietro le trame dipanate dalla voce dolce di sua madre, fino a cadere in un sonno fatto di voli onirici e sempre avventurosi.

Una volta Luigi aveva chiesto a sua madre come facesse ad inventare avventure così meravigliose e complesse ogni sera e la mamma gli aveva risposto che non le inventava lei ma le prendeva dalla mitologia. Diceva la mamma che per millenni gli uomini si erano raccontati le storie così. C’erano dei tizi, che si facevano chiamare aedi, i quali non facevano altro che andare in giro da un posto all’altro per narrare le avventure degli eroi o le scappatelle degli dei, oppure qualche fatto che era successo nelle città più lontane e che magari, dove erano andati, non si era saputo.

Luigi più o meno aveva capito solo che c’erano questi aedi che se ne andavano bighellonando come i barboni da un posto all’altro e spettegolavano dei fatti che non erano i loro. E comunque lui di aedi a casa sua non ne aveva mai visti e quindi ancora non aveva capito come la mamma le sapesse tutte quelle storie che gli raccontava.

Una delle sue preferite era quella della guerra di Troia. Si vedeva tutte le scene in mente: Elena che veniva rapita e portata a Troia da Paride; l’assedio degli Achei alla città, che durava tantissimi anni, senza mai riuscire a stanare i Troiani; le battaglie mitiche tra Achei e Troiani, come quella tra Achille ed Ettore, dove quest’ultimo veniva battuto da Achille ma solo perché lui era invincibile; il tranello del cavallo, che si era inventato il più intelligente di tutti gli Achei, Ulisse. Tutte le volte che la madre chiedeva a Luigi di scegliere quale storia volesse sentire, il bambino chiedeva sempre di ascoltare una storia del ciclo troiano. La sua preferita in assoluto era quella di quando Achille si nascondeva in una specie di tempio, per non andare in guerra, e addirittura si travestiva da donna ma l’astuto Ulisse lo stanava e lo portava lo stesso a Troia.

Luigi, dopo aver sentito mille volte quella storia, ormai immaginava tutta la scena fin dall’inizio. Gli sembrava di vederlo Achille, grande e grosso con tutti i muscoli nascosti sotto il chitone, l’abito delle donne achee. Si disegnava in mente il volto barbuto di Ulisse che un po’ divertito studiava come fare a smascherare l’invincibile Achille. Gli veniva da ridere e quasi saltava sul letto, quando la mamma arrivava al punto in cui Ulisse, vestito da vecchio mercante, entrava al tempio con una cesta piena di stoffe e vestiti e tutte le donne presenti si gettavano a capofitto sulle merci ma solo una rimaneva come catturata dalle bellissime armi che Ulisse aveva nascosto in fondo alla cesta. Era Achille che, alla vista della lama luccicante della spada e dell’elmo dalla bella criniera, non aveva saputo resistere ed aveva dovuto toccarle e così facendo si era fatto sgamare.

Ma quella sera, mentre la mamma raccontava, Luigi non riusciva proprio a rimanere concentrato. Il piccolo seguiva la trama ma non riusciva a farsi trasportare come al solito. Il fatto è che gli venivano in mente una serie di domande a cui non sapeva dare risposta, quesiti a cui non aveva mai pensato prima, sentendo i racconti mitologici della mamma. Ad esempio, come era possibile che Ulisse, così sveglio com’era, non riuscisse a riconoscere Achille alla prima occhiata, anche se era vestito da donna?, oppure, ma davvero il tallone era un punto così letale? Lui per sicurezza da un po’ di tempo si metteva sempre le scarpe da pallacanestro, perché sono belle alte ed imbottite dietro ma gli sembrava lo stesso starno.

La mamma gli aveva detto una volta che Ulisse non aveva riconosciuto Achille perché questi era sotto l’effetto di un sortilegio, una sorta di metamorfosi magica, e così Ulisse non lo poteva scoprire subito. Gli aveva detto anche che alla fine Achille era morto perché la freccia che lo aveva colpito era avvelenata, altrimenti non gli sarebbe successo niente di così grave.

Ma una cosa non aveva avuto il coraggio di chiederla alla mamma. Come si faceva a diventare invincibili come Achille? Luigi si ricordava di una storia in cui l’eroe acheo da bambino era stato immerso nel sangue di un drago, in un fiume di sangue magico, e perciò era invincibile, e siccome sua mamma, Teti, per immergerlo lo aveva tenuto per il piede sinistro, ecco come mai aveva il tallone vulnerabile.

La faccia meditabonda del bimbo alla fine aveva colpito l’attenzione della mamma che aveva smesso di parlare e gli aveva chiesto a cosa stesse pensando. Luigi allora, con il muso accartocciato in riflessioni più grandi di lui, le aveva chiesto se quando suo padre Antonio era stato immerso nel fiume di sangue del drago, fosse stato tenuto dalla nonna Graziella per il braccio sinistro. Eh sì, perché che anche suo padre fosse invincibile, questo per Luigi era fuori di dubbio. Ne aveva parlato anche con Luciano e, dopo lunghe meditazioni, erano giunti alla stessa conclusione, che il papà fosse come Achille, quanto a indistruttibilità. Lo dimostrava il fatto che era capace di andare a dormire tardissimo e di svegliarsi prestissimo senza morire e che mangiava da solo in una volta, quello che loro due mandavano giù insieme in una settimana. E poi era una montagna e quando a loro due capitava di fare la pennichella pomeridiana con lui, lo avevano sentito personalmente russare così forte da far venire il terremoto. Si erano anche ricordati di quelle volta al mare, in Sicilia, che entrambi avevano avuto paura dell’acqua, perché era così alta da sembrare che potesse, da un momento all’altro, cadere sulla spiaggia e travolgerli tutti. Si erano calmati solo quando il padre li aveva presi entrambi con sé e se li era portati a nuotare, mettendoli su una spalla e l’altra. Ripensandoci, avevano convenuto che era stato come girare su un motoscafo, sul quale, per inciso, loro non erano mai saliti, ma doveva essere senz’altro così. Insomma uno così di sicuro doveva essere come Achille.

Quando un pomeriggio di qualche mese prima lo avevano visto all’improvviso sbiancare e crollare quasi su una poltrona di casa, si erano preoccupati moltissimo. Comandati dalla mamma, che in quella occasione si era comportata come un generale, Luciano era schizzato in cucina a prendere un bel bicchiere di acqua fresca e Luigi aveva dovuto massaggiare, con delicatezza e a lungo, il braccio sinistro del papà, dalla punta delle dita, che gli erano sembrate insolitamente bluastre, fino all’attaccatura della spalla. Dopo un po’ Antonio aveva ricominciato a parlare, ma molto piano, e a ringraziare i suoi due ometti, che gli stavano prestando soccorso. Luigi e Luciano, una volta passata la paura, si erano subito mostrati particolarmente orgogliosi di essersi resi utili.

Ma da allora un pensiero assillava Luigi. Era possibile che, nonostante la storia di Achille fosse così conosciuta, la nonna Graziella aveva commesso l’imprudenza di lasciare fuori il braccio di suo padre dal fiume di sangue magico, quando ce lo aveva bagnato? Possibile che la nonna non la conoscesse? Se era così, allora questo fatto che il papà avesse provato male al braccio era grave e bisognava farci attenzione.

Quando si riebbe dalla sorpresa, la mamma chiese spiegazioni a Luigi e così il piccolo le raccontò tutta la storia e la mise a parte delle sue preoccupazioni per l’incolumità del papà.

I figli alle volte fanno o dicono cose che superano la loro età, e per quelle occasioni le madri hanno una espressione apposita, che raccoglie assieme la tenerezza, la preoccupazione e l’orgoglio. La mamma di Luigi, con quella precisa espressione in volto, cercava qualcosa da rispondere al figlio. Quando la trovò, il suo bel viso olivastro passò dalla contrizione al divertimento e a Luigi spiegò che non doveva preoccuparsi per il papà, perché la nonna Graziella, la storia di Achille la conosceva benissimo. Infatti, quando aveva fatto fare il bagno nel sangue di drago al papà, lo aveva immerso tutto intero e per sicurezza ci aveva messo dentro anche la mano che lo reggeva.

La bocca spalancata di Luigi diede la certezza alla mamma che il bambino avesse preso sul serio la sua risposta. Ora il piccolo poteva finalmente tornare a rigirarsi libero nel suo lettino, in attesa che il sonno lo prendesse tiepido e che il bacio della mamma ponesse fine alla coscienza di questa ulteriore giornata.

Solo una cosa rimase, buffa, tra il sonno e la veglia, a cullare i suoi pensieri vivaci, l’idea che nella tomba di sua nonna, morta da più di un anno ormai, ci fosse ancora un braccio invulnerabile che cercava in tutti i modi di uscire.

domenica 16 marzo 2008

l'arte è lunga...


mi sveglio alle 8.15. e che cacchio! oggi è domenica, ieri ho viaggiato, è stata una settimana faticosa e, nonostante tutto, non c'è niente da fare... già da un po' di minuti il letto mi sembra fatto di chiodi. mi tiro su sfatto, prendo il caffè mentre sono ancora all'angolo del divano, come un pugile suonato tra una ripresa e l'altra. mi risvegliano, dopo mezz'ora di catatonia, brividi di freddo e bisogni corporali vari. ora si sono fatte le 9.05, sono lavato, colazionato e ovviamente ancora in pigiama, pronto per farmi la vera dormita dell'insonne... quella mezz'oretta sul divano prima di dover per forza cominciare un'altra giornata. crollo come una torre di babele sbriciolandomi indolente sui cuscini ma la guancia , anziché tuffarsi sul cotone fresco e morbido, si imbatte in una superficie liscia e plasticosamente cartacea. è L'espresso di questa settimana, che qualcuno ha dimenticato qui. vado per spostarlo e il destino, che non esiste e a cui comunque non credo, mi lascia scivolare tra le dita alcune pagine fino a farmi sbattere sugli occhi la recensione di un libro. non leggo davvero cosa vi sia scritto ma due particolari attirano in quest'ordine la mia, per altro semi-vegetativa, attenzione... il primo è il titolo del libro presentato "Volevo solo lavorare" di Luigi Furini, edito da Garzanti.... il secondo è una frasetta messa di lato al pezzo in evidenza, che credo serva a descriverne la falsa riga, che fa così "Superare i 35 anni vuol dire uscire dal bacino dei candidati "favoriti" dalle aziende per l'assunzione". insomma, mi passa il sonno.
diceva Ippocrate che "la vita è breve e l'arte è lunga" quella professionale addirittura rischia di non vedere proprio la luce.
è dunque con epicurea propensione che decido di dedicarmi all'ozio e mi rilavoro questa foto, l'unica decente in una intera settimana di scatti romani. che dite, mi devo deprimere?

martedì 4 marzo 2008

Luigi and the Peter Pan Syndrome

ultimamente intorno a me è tutta una salva di tappi di spumante, un intrecciarsi di traiettorie di confetti rossi ed ermellini... insomma, pare che se uno mi è parente o amico allora si deve laureare. questo apre innumerevoli riflessioni... intanto sul valore della laurea in sé .... non nel senso che quelli che mi conoscono, che si sono laureati, non sono buoni ma, in generale, sul fatto che tutti si laureano, come prima tutti si diplomavano e il buon vecchio pezzo di carta diventa un confettino rosso piccolo piccolo così.
ma queste sono cose troppo serie per uno che deve scrivere quello che sto per scrivere io...
dunque vengo e mi spiego... il fatto che tutti mi si laureino intorno, con buona distanza, in termini di tempo, da quando mi sono laureato io, posto che io non sono stato uno precoce in questo aspetto, vuol dire solo una cosa: io frequento persone molto molto più giovani di me....
che dire oltre...
ps (per tutti gli eventuali commentatori: non vi accanite troppo... visto che ci sono arrivato da solo, sarebbe come sparare sulla croce rossa ;-)