lunedì 1 giugno 2009

il mistero delle maschere magiche

mi è stato chiesto di pubblicarlo in qualche modo. lo sto facendo così. buona lettura a chi se ne tiene.


"Maggio 1949. Dopo un inverno rigido e piovoso come non se ne ricordavano da cento anni, la stagione era scoppiata tutta insieme, quasi senza preavviso. “Benevento tiene proprio un clima brutto assaje. D’inverno t’infradici le ossa, mentre d’estate un altro poco l’afa ti schiatta.” La piccola Lisa lo aveva sentito dire al padre chissà quante volte. Per lei, caldo o freddo, l’importante era che la mamma le desse il permesso di andarsene in giro a giocare e questo era tutto.

Lisa, 10 anni, la pelle olivastra come quella della mamma, Anna, gli occhi rapidi e taglienti presi dal papà, Tancredi, talmente intensi da lasciare inquieti anche i grandi quando li fissava, era una bimba curiosa, silenziosa e solitaria. Gli altri ragazzi le giravano alla larga, persino i suoi fratelli non le davano troppa confidenza. “Uè, sta arrivando ‘a morticella”, così la chiamavano tutti. In effetti a vederla, Lisa era alta per la sua età e secca secca. Non aveva la faccia della salute ma un’espressione sempre allampanata e non sorrideva quasi mai. La gonnella che portava, lasciava scoperti quei due stecchi nervosi che aveva al posto delle gambe e, ovunque dovesse andare, lei ci arrivava correndo. Spesso la si vedeva sparire come un fantasma tra le carcasse dei palazzi bombardati attorno al Duomo, mentre percorreva sentieri che sapeva solo lei.
Il papà e la mamma se lo erano domandati spesso, ma come gli era uscita questa figlia così strana? Avevano pensato pure che magari fosse un po’ tocca. Una volta, che l’aveva trovata impalata a guardare un muro lungo via Rampone, dove stavano di casa, la mamma invece di gridarle addosso per farla ripigliare, aveva deciso di andare a vedere che cosa c’era di tanto interessante a catturare l’attenzione della figlia. Così aveva capito che Lisa non stava propriamente fissando il muro, cioè sì, ma in quel pezzo di muro c’era dentro una faccia di pietra, un mascherone. In città ce ne erano di queste cose antiche, infilate nei muri delle case un po’ dappertutto. Lei aveva sempre pensato che fossero statue di santi, poi una volta il marito le aveva detto che no, che erano i resti della Benevento antica e con la religione non c’entravano proprio niente, anzi. A lui lo aveva raccontato la madre, che tutti dicevano c’avesse il dono, fosse capace cioè di vedere le cose che non si vedevano, di parlare con gli oggetti. Lei a questa cosa non ci aveva mai creduto. La donna Elisa che aveva conosciuto, era una signora bassa e chiatta che forse non ci stava tanto con la testa ma, a parte questo, non è che sembrasse particolarmente magica. E poi se c’aveva questo dono, come mai era morta sotto ai bombardamenti? Non aveva voluto lasciare la casa neppure quando le sirene dell’antiaerea si erano messe a suonare all’impazzata. “Iate, iate – aveva gridato – che tanto, se devo morire, so già che qua adda capità!”. E così fu.

Insomma, Lisa se ne stava lì a guardare fissa una delle due maschere di via Rampone, gli occhi sbarrati dallo stupore. Ogni tanto apriva la bocca e mostrava i denti in una strana smorfia, che doveva essere un sorriso. Non poteva giurarci ma la madre era quasi sicura di averla vista sussurrare qualcosa nel vuoto, senza mai staccare gli occhietti lucidi dalle orbite cave e profonde del mascherone. “Lise’ ma che stai facendo?” Aveva chiesto la mamma, sinceramente preoccupata. “Sto ascoltando una storia.” Le aveva risposto Lisa riscuotendosi trafelata. “Oh, San Gennaro! E chi te la sta raccontando?”. A quel punto la piccola si era girata verso la mamma e, riassumendo la sua solita espressione imperturbabile, le aveva detto, “Da sola, ma’. Me la sto raccontando da sola”. Anna lì per lì aveva voluto crederci e se ne era tornata verso casa ma, già strada facendo, si era fatta la precisa intenzione di andarsene alla chiesa di San Bartolomeo, a dire una preghiera per quella figlia che c’aveva, sperando che il patrono della città le facesse la grazia di acconzargliela un poco. Passi pure che i bambini c’hanno molta fantasia e che si inventano i giochi più strani ma mettersi a parlare da sola, a ridere addirittura, fissando una statua nel muro, questo le pareva proprio troppo.

Se Anna avesse saputo come stavano davvero le cose altro che preghiera, un intero rosario avrebbe recitato. Lisa infatti aveva pensato fosse meglio non dirglielo alla mamma che la storia la stava ascoltando proprio dal mascherone. Da un po’ di tempo infatti aveva trovato due nuovi amici, con cui si trovava bene e che le raccontavano un sacco di fatti e di favole appassionanti: Macco e Accio, i due mascheroni di via Rampone. Non sapeva come fosse possibile ma sentiva le cose che i due si dicevano e, da quando lo aveva scoperto, erano diventati amici. Accio e Macco non erano i loro veri nomi. Quando all’inizio si erano presentati lei quelli veri non era riuscita a capirli, troppo complicati. “Ma non potevate avere dei nomi un poco più semplici?”, aveva chiesto. “Signorina, il nome mica uno se lo sceglie da solo. Tu perché ti chiami Lisa?”, “Perché così si chiamava mia nonna.”, “Noi ci chiamiamo così, perché siamo maschere tragiche”, aveva detto Accio con tono un po’ stizzito. “Sai come lo devi chiamare?”, aveva rintuzzato Macco dai piedi dello stipite nel quale era incastonato, “Chiamalo Accio come una maschera comica. È più semplice e poi gli sta pure bene”, “Accio? Come il sedano?” aveva chiesto la bimba stupefatta, “Eh sì. Che tanto quello proprio un ortaggio pare”. “Ma sentitelo! – aveva reagito il primo - Lisa sai invece lui chi mi ricorda, con quella barba mezza lunga e la bocca sfasciata? Mi ricorda lo scemo del villaggio! Sai come devi chiamarlo? Macco, come la maschera dei personaggi scemi”.

Ogni mattina, uscita di casa ancora con la zuppa di latte in bocca, Lisa schizzava lungo via Rampone, passava per piazza Mazzini e proseguiva ancora un poco verso il Corso. Arrivata a destinazione si sedeva a terra, proprio di fronte ai mascheroni, e cominciava a fare domande, finché i due non si mettevano a raccontare.
“Accio, ma che cosa è una tragedia? E cosa una commedia?” e quelli sotto a dire. “Beh, la prima fa piangere, la seconda fa ridere. Ma sono spettacoli bellissimi.”, “Sarà come dici tu – interrompeva Macco – ma sentire tre ore di una roba di cori austeri più un paio di discorsetti dell’attore principale, non è proprio la stessa cosa di sbellicarsi per un servo scaltro che grulla il proprio stupido padrone”.
“Macco. Ma perché gli attori usavano le maschere per recitare?” e loro di nuovo in un fiume di spiegazioni. “Perché le maschere facevano riconoscere subito il personaggio, anche dalle ultime gradinate della cavea”, si intrometteva Accio, didattico. “Perché erano brutti! – se ne usciva Macco, irridente - E perché non sempre c’avevano la voce abbastanza potente da farla arrivare fino in fondo al teatro, così usavano la maschera come una sorta di altoparlante.
In breve tempo Lisa aveva imparato moltissime cose. Sapeva per esempio che le rappresentazioni, le recite, come le chiamava lei, si facevano sempre in occasione di feste religiose, che erano dei veri e propri eventi, e duravano giornate intere. Il pubblico si assiepava sulle gradinate del teatro e ci rimaneva dalla mattina alla sera. I più si portavano persino i cuscini da casa e la roba da mangiare e da bere, come quando lei andava con la famiglia a fare qualche scampagnata giù al fiume. “A mezzogiorno – raccontava Accio con fare trasognato - si era nel pieno dello spettacolo. Il porticato esterno del teatro era affollato fino all’inverosimile, con scene di bisbocce e commerci”. A Lisa queste immagini facevano venire in mente quando era stata alla festa della Madonna delle Grazie, con i giocolieri del circo e le rivendite di cianfrusaglie che si infilavano fin nei cancelli della chiesa.

Col tempo Lisa aveva preso ad affezionarsi molto a questi due insoliti amici. Qualche volta col buio della sera ‘a morticella prendeva un po’ d’acqua, un tozzo di pane, ci metteva su un pochino d’olio, andava nel ripostiglio e si portava via uno dei ceri, che il papà aveva comprato per portarli al cimitero dalla nonna, e se ne andava dai mascheroni. Portava loro un poco di luce e qualcosa da mangiare. Avevano anche provato a spiegarle che tanto non ne avevano bisogno ma, in fondo, il pensiero che aveva per loro la piccola gli faceva piacere.
Lisa non lo poteva sapere che quella sorta di piccola offerta notturna aveva attirato l’attenzione di qualche curioso. Qualcuno, reputando la cosa di pertinenza delle sacre sfere, aveva denunciato il fatto al parroco di Sant’Anna, competente per territorio. Quello era andato a vedere ma aveva capito solo che le due facce non erano di nessun santo, così era corso a chiedere conforto al parroco di San Bartolomeo. I due guardiani d’anime a quel punto erano giunti alla conclusione che doveva trattarsi di cosa stregonesca. Erano solo incerti sul da farsi, se andare cioè dal vescovo e riferire in privato o se correre al giornale per portare lo scandalo alla conoscenza di tutti, con una certa conseguente rilevanza anche per le loro figure. Alla fine i due prelati avevano convenuto di optare per quella che sembrava la soluzione più consona alla sacralità del loro abito. Il mattino seguente la pagina locale del Roma apriva con il titolo “Satanismo a Benevento? In pieno centro, i resti di un rito satanico ai piedi di un idolo pagano”.

Lisa quella mattina, già arrivando a metà di piazza Mazzini, aveva notato uno strano assembramento di persone davanti alle due sculture. Tra i presenti era possibile distinguere almeno due carabinieri, un paio di preti, uno dei quali portava delle scarpe con la punta lunga e un alto tacco quadrato, che a Lisa facevano venire in mente quelle che calzavano le vecchie signore, e un certo numero di uomini in giacca e cravatta, tutti intenti a parlottare tra di loro. La piccola si era accostata con fare distratto allo stipite di un portoncino e da lì aveva cominciato a seguire le discussioni dei grandi. Uno dei preti, quello con le scarpe a punta, don Taddeo, spalleggiato da alcuni uomini in borghese si affannava a dire che quelle statue pagane, simbolo del demonio, andavano fatte sparire, smontate, divelte, insomma tutto purché non rimanessero lì in piena città a far cadere in tentazione i bravi cittadini di Benevento, che, detto per inciso, un certo rapporto con la stregoneria ce lo avevano avuto in passato e non era proprio il caso di alimentarlo.
Di fronte stavano l’altro prete, don Laudato, un tipo giovane con la tunica un poco lisa ma il piglio deciso e l’occhio infuocato dello studioso e con lui un omino piccolo e magro con la testa quasi del tutto calva, a forma di uovo, e un paio di occhialini tondi dalla sottile montatura metallica. Il professore Alfredo, così si chiamava l’omino occhialuto, si teneva un passo indietro al suo giovane amico religioso, lasciandogli l’onere di portare avanti la difesa delle malcapitate sculture e intanto il più del tempo se ne stava a fissare queste ultime di sottecchi.
Lisa, a sentire tutte quelle minacce di scalpellare e di buttare via i suoi cari Accio e Macco, quasi in lacrime avrebbe voluto correre in mezzo a tutti quei signori e mettersi a gridare che quelli erano solo due mascheroni del Teatro romano e con i diavoli e le streghe non c’entravano proprio niente, che lei e solo lei li conosceva bene. Si bloccò quando vide gli occhi attenti del professore Alfredo fissarla divertiti.

“Chiedo scusa – intervenne il Professore -. Ho sentito abbastanza. Don Laudato vi ha spiegato bene che qui la stregoneria non ci azzecca niente. Questi sono mascheroni provenienti dal Teatro romano. Ne ornavano la scena e per secoli sono stati testimoni della vita civile e religiosa di questa città. Quando è caduto l’Impero le decorazioni sono state usate come abbellimenti, nelle facciate di case, palazzi e pure di chiese. Allora che facciamo, adesso? Andiamo a scalpellare pure la facciata del Duomo?”. A questo punto il volto del Professore si fece duro e rigido. “Don Tadde’, ve lo dico qui davanti ai tutori dell’ordine. Se a queste statue succede qualcosa, vi faccio venire a renderne conto davanti alla forza pubblica. Sono stato sindaco di questa città e dovreste sapere che la mia parola qui conta”.
Lisa era a dir poco stupefatta. Come aveva fatto quell’omino dall’aspetto così ordinario a diventare in pochi secondi una sorta di eroe. E soprattutto come le sapeva tutte quelle cose su Accio e Macco? Forse anche a lui le due sculture avevano raccontato la storia del Teatro romano. Ancora la bimba era assorta in queste riflessioni, quando si rese conto che il vociare della discussione si stava spegnendo e, alzando lo sguardo, vide il prete in scarpette che se ne andava giù per il Corso col suo seguito. Si erano attardati solo i due carabinieri che rimanevano a presidiare il luogo del misfatto, don Laudato ed il professore Alfredo, che si era inginocchiato accanto ad Accio e lo osservava con soddisfazione.
Lisa ‘a morticella, non esitò neanche un istante a raggiungere l’uomo accovacciato, il quale, quando se la vide dritta come un piolo davanti, la fisso con un sorriso mite. La ragazzina si fece coraggio e gli chiese, “Ma tu come le sai tutte quelle storie su Accio e Macco?”. Il professore, tra il sorpreso ed il divertito, si prese ancora un attimo per osservare da capo a piedi la sua improbabile interlocutrice. “In verità, queste due maschere non si chiamano Accio e Macco”, “Sì, lo so – fece la bambina – ma i loro nomi sono troppo complicati per me e mi hanno detto che andava bene se li chiamavo così”. “Hanno due nomi greci piuttosto difficili da pronunciare – ammise il Professore - e, in un certo senso, è vero che questa storia me l’hanno raccontata loro. Sai, io faccio il professore di Storia e Letteratura”. “Professore eh? Mi sa che voglio fare anche io il professore da grande”. “Allora, studia e diventerai una buona professoressa. Hai gli occhi giusti”. Detto questo il professore Alfredo salutò Lisa e si incamminò insieme con don Laudato verso il Corso.

Quando quella sera Lisa andò a salutare i suoi due amici, senza luci e cibo però, Accio e Macco le giurarono e spergiurarono di non aver mai parlato col Professore, quindi rimaneva il mistero di come questi avesse fatto a sapere tutte quelle cose. Per un attimo, ma solo per un attimo, Lisa pensò che poteva trattarsi di una specie di stregone o di mago, ma poi si convinse che qualsiasi cosa significasse fare il professore, non doveva esserci proprio niente di male.

L’estate scivolò via calda e liscia, tra racconti mitologici ed episodi di vita quotidiana, in cui Lisa ad occhi chiusi giocava ad immedesimarsi. Con l’arrivo dell’autunno, però, il papà non riuscì a trovare nulla di meglio di un lavoro da stagionale e la famiglia fu costretta a lasciare la casa di via Rampone per trasferirsi dai nonni, in campagna. Così la piccola Lisa dovette abbandonare i suoi due tutori di pietra, ma non la decisione di diventare un giorno una professoressa.

1 commento:

stefano ha detto...

proprio belle le tue storie brevi