si tratta di una strana cosa, quella che mi è capitata oggi. non ho capito bene come sia accaduta ma su questo pulmino il tempo invece di andare avanti si è messo ad andare all’incontrario. quando ci sono salito, sono sicuro, era il 2009, io ero a diyarbakır e l’orologio, che non porto, marciava inevitabilmente nella giusta direzione o comunque andava avanti.
il problema, se così lo si può definire, ha cominciato a manifestarsi quando mi sono messo a guardare fuori dal finestrino. certo non si può dire sia stata colpa mia. vorrei vedere voi mentre siete su un aggeggio tutto sgangherato, pieno di moquette e nastrini, che corre ad una velocità indefinitamente alta, comunque ben oltre i suoi limiti strutturali, guidato per di più da un criminale con evidenti istinti omicidi-suicidi, mentre vi spostate lungo la valle del fiume tigri, da diyarbakır a batman, sì sì, proprio come l’uomo pipistrello, e poi fino ad hasankeif. in una situazione del genere c’è poca scelta, perché la strada è meglio non guardarla, che questo hannibal lecter del volante, quando vede che di fronte arriva qualunque cosa sia più pesante di un paio di tonnellate, tipo un autotreno a pieno carico, un trattore con due strati di pecore sul rimorchio, un carrarmato, allora decide che è arrivato il momento di mettersi alla prova e superare la macchina con famigliola che ci sta davanti. giurerei che il pazzo alla guida si mette anche a fare quel versaccio da maniaco con la bocca, quella sorta di risucchio ossessivo che fa sempre il dottor lecter prima di “cenare con un amico”, mentre fa il pelo all’equivalente turco di una fiat regata con a bordo padre, madre, un altro paio di donne non meglio precisate e un numero variabile tra 4 e 6 bambini, per un totale di 8-10 esseri umani, schivando appena il pesante tank turco, il quale, detto per inciso, non vede l’ora di acciaccare sotto i cingoli un pulmino pieno di curdi, senza doversi neanche giustificare.
per quanto riguarda l’interno del mezzo poi, è meglio non perderci proprio tempo, non sia mai dovessi trovare qualcosa di talmente indecente, tipo un buco nel pavimento, da non poter fare a meno di chiedere qualcosa all’osama bin laden delle strade a scorrimento veloce. non ci voglio nemmeno pensare a cosa sarebbe capace di fare se si distraesse.
insomma godersi il viaggio non è cosa, quindi non mi resta che guardare fuori, cercando di concentrarmi sul paesaggio. la strada scivola come una fettuccia sottile di asfalto, neanche tanto malandata, lungo il fondo della valle, in piano. è confortevole, se non si pensa a quel dart fenner multijet che tiene in una mano la mia vita e nell’altra un cellulare con cui adesso sta mandando messaggini chissà a chi. il panorama è mozzafiato, la spianata si apre calma ed immensa alla vista, per chilometri e chilometri attorno al fiume, che si muove appena, appisolato qui più o meno dalla notte dei tempi. incontriamo gli ultimi segni di cosiddetta civiltà poco dopo batman, manco a dirlo, una caserma dell’esercito. i militari di guardia nelle torrette sembrano soldatini di altri tempi, con quegli elmetti tanto più grandi delle loro teste e quelle semplici magliettine verdi mi ricordano le foto dei padri dei miei amici quando lo facevano loro il militare, negli anni sessanta e settanta. e qui già mi sarei dovuto preoccupare ma, in fondo, che ne potevo sapere io della piega che avrebbero preso le cose. dopo pochi chilometri non incrociamo più automobili o autocarri e lo psycho-autista, anche se un po’ a malincuore, deve calmarsi perché tirarsela con un carretto trainato da un mulo non sarebbe dignitoso nemmeno per lui. intanto le montagne sono arrivate e la valle letteralmente sparisce, all’improvviso. la strada si arrampica per un pezzetto e poi torna giù in una gola bella profonda, perfettamente scavata a forma di fiume. al suo interno non c’è spazio per nulla, solo il greto del tigri e un angoletto per la strada.
mi viene da pensare che qui la civiltà non c’è mai arrivata e invece dovrei dirmi che non c’è ancora arrivata, perché è evidente che siamo nel 1900 o giù di lì e fino a quando non arriviamo ad hasankeif non riesco a crederci davvero.
quando finalmente scendo, vorrei quasi buttarmi in ginocchio e baciarla questa terra antica, per lo scampato pericolo, ma lo spettacolo indecoroso di un omino del futuro che si contorce e si libera in scongiuri, decido che glie lo voglio risparmiare agli abitanti di hasankeif.
il posto è incredibile. sono sul fiume e la rupe che mi sovrasta sarà alta almeno ottanta o novanta metri. lungo tutta la sua statura è piena di buchi, che da qui sembrano forellini ma che invece sono le imboccature di una miriade di grotte e canali. sono le antiche case degli abitanti di hasankeif e un certo numero di queste è ancora frequentata. la maggior parte delle cinquemila persone che abitano qui però si è trasferita in case vere e proprie già al tempo dei romani o dei bizantini o dei sassanidi o vattelappesca. da dove sono io si deve scegliere se salire su, arrampicandosi fino in cima al canyon, o se scendere sulla sponda del fiume. ci penso per meno di un secondo, hasankeif può attendere, prima devo fare una cosa, devo proprio toccarlo questo cavolo di fiume tigri, devo sentirne l’acqua con le mani, ci voglio proprio saltare dentro. e allora ci vado e poi, visto che ci sono, mi fermo pure a mangiare in questa sorta di locale che in realtà non è un locale ma una palafitta appizzata nell’acqua del fiume con tappeti e cuscini su cui stare sdraiati e da dove guardare un po’ l’antica rupe urbana, un po’ i piccoli nomadi che pescano nel fiume come mamma li ha fatti.
solo alla fine mi ricordo che devo fare un po’ di foto perché se no finisce che non ci crede nessuno che sono andato indietro nel tempo sul fiume tigri e pazienza se mentre le riguardo mi pare che sembrino foto di cento anni fa. in fondo è normale, visto che lo sono davvero.
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